Per qualche strano e arcano motivo, i pochi dischi che quest’anno mi sono piaciuti sono più o meno tutti contraddistinti da artwork terribili. Particolare alquanto demodé, visto che oramai il 90% degli ascolti vengono fatti nell’impalpabile ed etereo formato mp3.

Forse anche per questo motivo, molti artisti sembrano sbattersene altamente di proporre un design non dico eccezionale, ma almeno sufficiente (se non altro fatelo per rispetto di noi poveri disgraziati che ancora i soldi ve li diamo). Ed è un vero peccato. Perché è sempre stata interessante l’idea di rappresentare graficamente la propria visione musicale, e molto spesso una copertina era un sovrappiù visivo alla musica. Ok, siamo d’accordo che il ristretto spazio del cd comporta una gestione grafica differente, ma di esempi interessanti negli anni ce ne sono stati tanti.

I Cave sembra proprio che abbiamo registrato il disco e poi affidato l’artwork a qualche loro amico sballato. Non si spiega altrimenti l’orribile accostamento cromatico della copertina, per non parlare del simbolismo indo sincretico d’accatto che si riesce a malapena a scorgere, non solo dal file su internet, ma anche avendo fra le mani l’originale. Non da meno il terribile interno del digipack: non si riesce a capire manco il nome dei pezzi, e sembra di vedere quelle illustrazioni sulla caccia delle enciclopedie di mio nonno. E non c’è manco il gusto dell’effetto vintage, è solo incapacità grafica totale.

Peccato, ripeto, perché i ragazzi ce la mettono tutta a rendere credibile il loro frullato di tribalismi alla Oneida, tastierame krauto e reminiscenze freak. Già l’iniziale “Gamm” contiene in parte gli ingredienti appena elencati, ancora più riconoscibili nell’andamento quasi post punk della successiva “Made In Malaysia”. Il cantato è approssimativo, spesse volte biascicato e sovrastato dagli strumenti, dando al tutto un alone psicotico, quasi una versione edulcorata e digeribile dei P.I.L. (prendetela con le pinze, questa). Fra viaggetti sull’autobahn di turno (“High, I Am”), requiem robotizzati per musicisti spastici (“Requiem For John Sex”), e Stereolab combattuti fra il metadone e l’anfetamina ("Machines And Muscles”) si arriva in poco più di mezz’ora alla fine dell’estate psichica.

Il caldo rimane, il senso di schizofrenia scema pian pianino, la voglia di riascoltare il tutto rimane per un po’. Ma l’artwork rimane una merda.

Carico i commenti... con calma