Ritornano, a due anni dal precedente “Neverendless”, i californiani Cave, sempre più persi nella loro bolla temporale,  settata intorno all'anno 1971/72, localizzabile fra Dusseldorf, Monaco ed Essen.

Fieri ed indomiti sostenitori e promulgatori del verbo kraut in terra statunitense, i Cave al terzo disco beccano quella che sembra la ricetta quasi perfetta del loro sound. E lo fanno staccandosi dal tentativo (peraltro riuscitissimo nel disco precedente) di ricreare il motorik sound dei NEU! e ibridarlo con le chitarre acide odierne. Aggiungendo importanti dosi di groove funk (ma bianco come un tedesco di Dresda a Gabicce nell'82) non perdendo di vista il gusto dell'iterazione strumentale stordente. Emblematica l'iniziale “Sweaty Fingers”, 12 minuti di funk bianco, che a 4 dalla fine si incanta su un giro infinito.

Da evidenziare l'accresciuto affiatamento fra i quattro musicisti, la cui tecnica si intravedeva bene già nelle altre prove, ma che qui raggiunge livelli di autocontrollo eccelsi. Sì perchè la dote maggiore del gruppo, è quello di non suonarsi mai addosso, risultando mai come ora essenziale e asciutto, anche nelle ripetizioni e nei pattern ritmici, che sono tutto meno che statici. Seguite bene l'andamento di “Silver Headband” e provate a coglierne il geniale intreccio di strati ritmici che si intersecano lungo i suoi 9 minuti. Oppure l'intricato lavoro della sezione ritmica di “Shikaakwa”. Molto interessante anche la finale “Slow Bern” pulsante ma meditativa e soprattutto “Arrow's Myth” che si allontana dalla Germania viaggiando per l'Etiopia di Mulatu Astatke e l'Harlem dei '60 jazz.

Disco e band che finalmente cercano di uscire dal recinto psych kraut autocostruitosi e che potrebbe piacere anche ad ascoltatori poco avvezzi alla materia.

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