Un suicidio.

Come si può definire altrimenti quello che è stato "Cold Lake" per la carriera, l'immagine, la storia che il nome Celtic Frost portava con sé?

Ora, non vorrei che la presente recensione venisse etichettata come l'isterica reprimenda di un fan della prima ora che non è stato in grado di giudicare serenamente un percorso evoluzionistico, un cambiamento radicale, etc.. etc..

Non è così: le songs che compongono l'album in oggetto non sono né carne ne pesce, non hanno anima e per essere chiari fin da subito non appartengono assolutamente al songwriting geniale dell'accoppiata T.G.Warrior/M.E.Ain, ma risentono dell'influenze glam/hair metal (ed in minima parte speed metal, con sonorità che si rifanno ai primissimi Megadeth) introdotte dalla nuova coppia di axe men, l'infame duo Bryant/Amberg (soprattutto il secondo, principale artefice del songwriting, così come lo si evince dai credits dei brani) che evidentemente durante l'estenuante tour americano post "Into the Pandemonium", sono riusciti a disgregare, estirpare, edulcorare dalle menti dei padri fondatori il vero significato di sperimentazione sonora, di ricerca introspettiva e culturare, vera chiave di volta del percorso musicale intrapreso dai nostri sin dai tempi in cui si facevano chiamare Hellhammer ed erano giudicati dalla stampa specializzata come la band più cacofonica del pianeta metal.

Altrimenti non ci si potrebbe spiegare come autori colti e geniali che come artwork dei loro album pubblicarono opere di H.R.Giger, di Hieronymus Bosch, si ridussero a pose da Sunset Blvd. losangelino che neanche Vince Neil o Bret Michaels e compagnia street glam.

E questo è il lato puramente visivo e qui mi si potrebbe obbiettare che ognuno fa ciò che vuole della propria immagine: sacrosanta verità, ma ritengo sia ingiustificabile altrimenti la dicotomia a cui assitemmo inermi, impietriti all'atto della pubblicazione di questo "Cold Lake".

E la musica?

Beh, se anche si trattasse di qualcosa di distante anni luce da quanto fatto in precedenza ma che comunque portasse con se il trade mark assolutamente imprescindibile dei Celtic Frost, bene allora non si potrebbe eccepire nulla, ci saremmo trovati davanti all'ennesima deriva sonora, all'ennesima strabiliante evoluzione e forse all'ennesima pagina di storia.

Qui i Celtic Frost non si odono, qui i Celtic Frost non ci sono già più: songs scialbe, prive di mordente, assolutamente inconcludenti nel loro essere a metà strada tra un impersonale street metal alla Motley Crue di "Too Fast for Love" e di una qualche rara reminescenza speed/thrash tipo Megadeth di "Peace sells..." (soprattutto per quanto riguarda la scelta dei suoni, non certo per la qualità della proposta musicale), cantate da T.G. in modo decisamente innaturale, forzato per risultare a tutti i costi lascivo, senza coinvolgimento e trasporto, insomma i brani proposti da questo "Cold Lake" credo sarebbero stati scadenti anche se fossero stati pubblicati a nome Slaughter o Warrant (non me ne vogliano i fans di queste due band) e il che è tutto dire.

Quello che sarebbe dovuto essere l'asso nella manica del successore di "Into the Pandemonium", cioè una finalmente maturata e completa capacità tecnica negli assoli (per questo furono assoldati i due "guitar hero" di cui sopra), diviene la componente più imbarazzante, esplicitata in solos pirotecnici e rumorosi decisamente fastidiosi e non confacenti al contesto musicale. Un fallimento anche da questo punto di vista.

Unica nota positiva: alla composizione e registrazione del suddetto flop, non partecipò l'altra metà della mente oscura targata Celtic Frost, Martin Eric Ain. E' una magra consolazione ma almeno qualcosa, a livello di stima e considerazione, si salvò.

Da avere come cimelio e come monito negativo.

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