Dato alle stampe nell'ormai lontano 1987, "Into The Pandemonium" rappresenta lo zenit compositivo della band di T.G. "Warrior" Fischer e Martin Eric Ain, con un sound meno ruvido e brutale rispetto ai precedenti lavori mantenendo comunque inalterate quelle atmosfere sinistre e così originali dalle quali una miriade di gruppi death, black, gothic metal et simila, prenderanno a piene mani ispirazione (chiedere ai Paradise Lost di "Gothic" o agli Obituary di "Cause of Death" così come ai Tiamat di "Clouds" o ai Samael di "Cerimony of the Opposites" per citarne solo alcuni).

La sfida verso l'innovazione e l'originalità inizia subito con l'opener "Mexican Radio", che infatti altro non è che una versione metal del cavallo di battaglia dei Wall of Voodoo, gruppo new wave/electro dark primi anni '80. Spiazzante e coraggioso. Si prosegue poi con "Mesmerized", song medio lenta, di una semplicità disarmante, caratterizzata da un arpeggio dissonante su riffing doloroso e sofferto, così come lo è il cantato di Thomas Gabriel, lontano dal classico death grunt frostiano. Il soprano Claudia Maria Mokri interviene gelando l'atmosfera dell'intero brano.

Cambio di ritmo con la successiva "Inner Sanctum", claustrofobica e tesa, come nella migliore tradizione, death/thrash con un mid tempo centrale, cantato growl e assolo "in stile". Seguendo l'edizione originale del platter è ora il momento di un piccolo gioiello di gothic metal ante litteram, "Tristesses de la Lune" (nelle riedizioni successive verrà intitolato "Sorrow of the Moon" per distinguerlo dall'interpretazione orchestrale, meravigliosa e sognante, con la Mokri alle vocals, che ne "ruberà" il titolo in francese), cantato ancora una volta lascivo e lamentoso, sofferto, per una song dal riffing intenso e assolutamente originale.

Poi l'abisso in cui ci trascina uno dei classici frostiani: "Babylon Fell", potente, tortuosa nelle sue decelerazioni, il classico "Uhh" di T.G.Warrior, per poi aprirsi maestosa e perversa nel riff centrale con tanto di sottofondo spettrale opera della sopra citata Claudia Maria e assolo schizofrenico, ma dal grande effetto. "Caress into Oblivion" si apre inquietante con un giro di basso sormontato dal "Namas", richiamo alla preghiera musulmano cantato dai muezzin, citazione dal film "L'Esorcista", per poi svilupparsi, ipnotica e possente in accelerazioni classicamente thrash, accompagnate dall'ormai caratteristico alternarsi tra cantato growl e lamentoso. Un'eco di percussioni berbere accompagna ed impreziosisce questa song e le dona definitivamente un appeal mediorientale assolutamente affascinante.

Come dicevamo prima questo è un album coraggioso ed innovativo e la riprova lo è "One in their Pride", pezzo dal beat industriale mixato con chitarre distorte, sinistri violini, campionamenti vocali che sembrano presi da un'allunaggio Nasa, il tutto in un'atmosfera surreale ed in un disco di metal estremo. Folle e stupendo. E' quindi la volta di una vera song da headbanging spacca collo: "I Won't Dance" (titolo mutuato da un brano di Frank Sinatra, di cui T.G. Warrior non ha mai nascosto di essere fan) è un pezzo di death medio veloce estremamente convincente nel riffing tosto e secco, ma altrettanto originale nel confezionamento, con chitarre distorte in armonica al riff principale e cori di voci pulite e straziate dal dolore. Grandissimo anche nell'assurdo e malato assolo.

E poi il gran finale con le pieces teatrali "Rex Irae" e "Oriental Masquerade", nelle quali si toccano vette compositive senza eguali (chiedere ai Therion cosa ne pensano). La prima altro non è che un'opera lirica con tanto di magniloquente arrangiamento orchestrale e voce soprano in primissimo piano, il tutto strutturato in tre atti più finale, mirabilmente mescolato a chitarre elettriche e sezione ritmica a volte tellurica, come nella parte centrale che diviene praticamente un pezzo death/thrash con tanto di doppia cassa. Mostruosa interpretazione lirica di T.G.Warrior. La funerea "Oriental Maquerade", dall'incedere lento e sincopato (riporta alla mente la magnifica "Innocence and Wrath"), altro non è che la continuazione stilistica della song precedente e chiude degnamente un album davvero storico e seminale, assolutamente anomalo per il panorama metal mondiale del periodo di pubblicazione e che tuttora risulta originale e innovativo.

In conclusione due parole sull'artwork: ancora una volta i Celtic Frost si dimostrano artisti colti a 360° mettendo in copertina un particolare del "Garden of the Earthly Delight " del pittore fiammingo Hieronymus Bosch, direi una scelta azzeccata visto il contenuto musicale e lirico.
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