La cosa più difficile da imparare è convivere con il peso della nostra anima. Seguire ciò che si è nelle profondità, fino a trovarsi faccia a faccia con i nostri demoni privati. Pochi di noi hanno il coraggio di esplorare quegli impervi territori. Alcuni ci riescono semplicemente imbracciando una chitarra. E Chris Whitley è certamente uno di questi illuminati ricercatori.

Il suo linguaggio è un blues sanguigno, estratto dalle viscere di una dobro resofonica, che scava intorno a quei pochi polverosi accordi e trasporta l'ascoltatore in un limbo armonico e melodico. Non il blues convenzionale e sottrattivo, quanto più una rilettura estremamente personale che rifugge ogni conformismo e si esalta nelle sfumature. Un fraseggio avventuroso che, prima di sporcarsi, è espressione delle ferite che portiamo dentro. Con Chris infatti si è costretti a vibrare, come vibrano le corde del suo strumento. Come vibra questo pianeta, in uno stato perenne di inquietudine.

“Dislocation Blues” è il testamento di un grande e mai sufficientemente compianto musicista. Di lì a pochi mesi purtroppo, a soli 45 anni, un cancro ai polmoni avrebbe spezzato il volo della sua arte. Non lo spirito che aleggia immortale in quelle note.

Non ce la fanno / I belli muoiono giovani / E lasciano i brutti alle loro brutte vite”.

Il disco è un viaggio di liberazione tra i campi di cotone, in compagnia dell'amico Jeff Lang, un bluesman australiano più canonico e dalla voce più morbida, ma senz'altro padrone di quella materia oscura. Il grande merito di Lang è soprattutto in fase di produzione e mixaggio, nel ricreare un sound retro dalle atmosfere ovattate, attraverso le quali i due stendono i propri acquerelli emozionali. Quel suono che probabilmente Whitley ricercava da sempre e al quale si era pure avvicinato nell'ultima fatica solista, l'ottimo “Reiter In”. Il Diavolo si sa è nei dettagli e mai frase risulta tanto azzeccata come lungo questi solchi. Canzoni ai margini della melodia, appese ad un filo che sembra manipolato da forze imperscrutabili e morbose, e ci attraversano dal lato più esposto, quello più vulnerabile.

La coppia mostra un affiatamento e sintonia naturali, sia nella rilettura di traditionals quali Hellhound On My Trail e “Stagger Lee” che nelle reinterpretazioni in chiave blues di alcuni classici dylaniani come When I Paint My Masterpiece e “Changing Of The Guards”. Ma il loro interplay funziona alla grande anche nei rispettivi brani solisti (Velocity Girl”, "Twelve Thousand Miles"), nei quali spesso i due si scambiano sia le parti di chitarra che quelle vocali. C'è da dire che la voce profonda e sensuale di Chris risulta la vera protagonista, insinuandosi tra le note e i riverberi legnosi, rigenerante come una leggera pioggia sui nostri corpi nudi.

Siamo nei luoghi cui apparteniamo, fuori moda ancor prima che fuori dal tempo, e il blues è la medicina che si prende cura del nostro malessere.

In fondo sappiamo che non usciremo vivi da tutto questo.

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