Lo so, sono forse noioso nel proporvi quella che appare l'ennesima, magari anche banale contaminazione Oriente-Occidente, per giunta di un artista di cui poco o nulla si sa, e non certo degnato (almeno finora) dell'interesse che pure avrebbe meritato. Prodotti del genere, si dirà, arrivano sul mercato in quantità industriale; del resto, non siamo più negli anni Ottanta (o anche prima) quando certe opere d'alto pregio intellettuale erano la "new thing" del momento, e l'ascoltatore (specie quello occidentale) non era ancora abituato a simili, ardite, commistioni. Si dirà anche che i grandi "ricercatori" d'Occidente, da Davy Graham fino ad arrivare ai Sylvian, agli Hassell, ai John Zorn, hanno detto pressoché tutto quello che c'era da dire in termini di dialogo fra culture; il "non detto", si è portati a pensare, è inesorabilmente inferiore, in percentuale, a quanto è già stato messo (con successo e meritati riconoscimenti) su disco. 

Niente di più sbagliato, mi sento di dire; soprattutto, quell'Oriente che sta a metà fra l'India e il Giappone, e che comprende Indonesia e Indocina, è a tutt'oggi un "unicum", per complessità e varietà di forme musicali, in gran parte (come già accennato nel mio lavoro su Steve Tibbetts) ignorato finanche dai musicologi delle nostre parti, che a stento saprebbero fornire un quadro - non dico esatto, ma neanche approssimativo - dei suoni che popolano Birmania (io la chiamo ancora così, se permettete), Thailandia, Laos. I pochi che ci hanno provato si contano sulla punta delle dita: la Thailandia in particolare è terra molto legata alle proprie tradizioni, gelosa di un patrimonio che sconfina negli incerti territori della mitologia, per certi versi imperscrutabile; si è affascinati dal mistero, come è noto, ma si è anche suggestionati da esso. Il fascino dell'antico Siam è proprio questo: attrazione irresistibile e timore allo stesso tempo.

Non ripeterò la noiosa trafila storiografica sulle scuole musicali del luogo, trafila che altrove (mio malgrado) ha reso i miei lavori recensorii irrimediabilmente soporiferi; mi preme soltanto segnalarvi l'uscita per la Tzadik (nel 2004, arrivo un po' in ritardo) di quella straordinaria opera d'avanguardia che è questo "Epilogue For A Dark Day" di Christopher Adler; il personaggio non è di quelli che fanno colpo a prima vista: occhialetto intellettuale e aria da professorino saccente e noioso, più o meno l'aspetto che qualche utente del sito immagina per il sottoscritto (che invece ha la barba e i capelli fin sotto le spalle, ma bando alle ciance...); e infatti professore lo è davvero, titolare della cattedra di Composizione alla San Diego University, donde sta destando impressione con un percorso di ricerca che (non ho paura di dirlo) ha pochissimi eguali: da New York a Tokyo, il suo nome sta diventando sempre più familiare agli addetti ai lavori e non solo, per quella sua stravagante quanto formidabile abilità di... combinare armonia colta europea e musica popolare thailandese; ma in un modo del tutto "eretico" e anti-lineare, fedele a un percorso assolutamente individuale. Inutile sforzarsi di cercare riferimenti: quel che si ascolta in quest'opera è il risultato di anni di ricerca (anche condotta sul posto, ovviamente, ancor più che da dietro una scrivania) di un Luminare che, in tempi recenti, si è messo in testa di musicare l'intero canto VI dell'Eneide per chitarra solista: insomma, certamente un tipo non da poco...

...che fra l'altro, nei suoi dischi, suona eccome, non limitandosi alla semplice veste di (per quanto eccellente) compositore. E suona, in questo caso, uno strumento sul quale devo per forza spendere due parole: il "KHAEN", anche noto come "organo a bocca laotiano" (definizione molto occidentale, questa, perché la sua struttura a canne - disposte su due file parallele - ricorda quella di un organo). Per suonarlo ci vuole il triplo del fiato che serve per suonare un sax, e per trasportarlo bisogna soffrire le pene dell'inferno: la canna più grande può anche raggiungere i tre metri...! Oggi ne esistono comunque esemplari più pratici, molto più piccoli, come quello che il Nostro suona in un video che, a recensione uscita, vi proporrò.

Il disco è una raccolta di composizioni registrate nell'arco di più anni; "Three Live" e l'orchestrale "Pan-Lom" sono dal vivo, fra l'altro. Un collettivo percussionistico di sei elementi si esibisce nell'orgia tipicamente thailandese di "Signals Intelligence", mentre altrove il solista si ritaglia lunghi spazi per il suo Khaen, con esiti ipnotici e sottilmente terapeutici. Aprite le porte dell'immaginazione, e universi interi si spalancheranno a voi: musica stellare, libera di rivelarsi e di splendere meravigliosa; mirabile sinfonia a commento di un crepuscolo orientale, stando alla chiave di lettura opportunamente offerta dal titolo. La chilometrica "Pan-Lom", in particolare, tocca i vertici della maestosità più solenne e rarefatta, pura poesia di corte fra le stanze d'un palazzo regale; in fondo una suite, perché no, ma impreziosita da salti armonici e trovate timbriche (vedi l'inattesa presenza di un dulcimer, per esempio) che hanno dell'incredibile, e fanno gridare al miracolo. Tutto è perfettamente calibrato e bilanciato, senza eccessi; senza eccessi di cerebralità, soprattutto, pericolo sempre in agguato in certi casi.

Ascoltate, ammirate, godete...

       

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