Un piede all'inferno i Cirith Ungol l'hanno avuto in pratica per tutta la durata della loro carriera. Ignorati dal pubblico, bistrattati dalla propria casa discografica, destinati a non raccogliere mai i frutti della propria creatività, hanno rappresentato il lato più oscuro, l'anima tormentata e decadente della scena epic metal statunitense anni '80.

Sotto la guida di Jerry Fogle, chitarrista geniale e visionario, la band di Ventura ha saputo dipingere con vivida solennità quadri sonori intrisi di malvagità degenere, asfittici ma anche esaltanti per l'ascoltatore, affreschi di un'epicità fiera e mai banale, in cui sono confluite molteplici fonti di ispirazione, musicale e non: l'hard rock e la psichedelia dei seventies, in primo luogo, cui va attribuito il merito di aver imbastardito il tipico heavy metal sound, conferendogli un retrogusto visionario e malato (sentasi, tra l'altro, il suono decisamente "acido" delle chitarre), ma anche la lezione della NWOBHM, cui, perlomeno nella seconda fase della loro discografia, i Cirith Ungol hanno saputo pagare il giusto tributo, peraltro senza a nulla rinunciare in termini di personalità e originalità.

Il vero valore aggiunto, però, lo ha rappresentato, a mio avviso, la scelta di intingere la propria musica con quello sconfinato fatalismo, con quella sorta di "pessimismo cosmico" che pervade la saga dell'antieroe moorcockiano Elric, principe albino di Melnibonè, nato debole in un corpo inadatto a contenerne la furia, costretto a legare il proprio destino a quello della spada nera Stormbringer (in italiano, con traduzione discutibile, "Tempestosa"), in grado di nutrire, con l'anima delle proprie vittime, chiunque la brandisca. Teatro delle gesta di Elric è una terra devastata dalla depravazione umana, in cui ben poco spazio possono trovare i sentimenti positivi: un quadro allucinato e malvagio (tra l'altro egregiamente riprodotto dall'artwork del grande Michael Whelan), che ha finito per infettare il sound della band con spunti lisergici e paranoici, conducendolo, il più delle volte, verso un doom profondamente decadente e fatalista.

Proprio in tale contesto, emerge l'imprescindibilità del leggendario Tim Baker: cantante unico nel suo genere, dotato di una voce roca, ma acutissima, interprete perennemente sopra le righe (grazie anche ad un uso smodato del riverbero), talvolta, va detto, tutt'altro che piacevole. Il suo cantato è puro dolore coartato in linee vocali, il suo timbro e le sue urla veri croce e delizia del Cirith Ungol sound: agghiacciante ed irresistibile per gli estimatori, quanto ridicolo e fastidioso per i detrattori, ha sempre rappresentato il vero marchio di fabbrica della band, rimanendo, nel corso dei decenni, inimitabile ed inimitato.

Tutto questo lo si ritrova in "One Foot in Hell", pubblicato nel 1986, in un America sconvolta dal delirio thrash Bay Area, a tre anni di distanza da quello che in molti considerano il capolavoro di Fogler e soci: "King Of The Dead" ('83). Con questo disco il gruppo decide di smussare leggermente le asperità del proprio approccio musicale: le sonorità più prettamente doom del disco precedente vengono ora affiancate da momenti e brani più tirati e "classici". L'opener "Blood And Iron", in pratica una classica cavalcata maideniana in salsa epico-orrorifica, il mid up tempo "War Eternal" (il cui riffing ricorda vagamente alcune cose dei Rainbow), e persino il brano più debole del pacchetto, "100 Mph", sono chiari esempi della volontà della band di pigiare il piede sull'acceleratore, di aumentare i ritmi della propria produzione, forse nel (vano) tentativo di uniformare la propria offerta musicale ai gusti del pubblico. Il risultato, sebbene privo di quell'aurea tragica e angosciosa che caratterizzava i brani del passato, è decisamente buono: Fogle è un chitarrista eccezionale (e l'assolo conclusivo di "War Eternal" ne è la prova più lampante) e, in generale, tutta la band si dimostra piuttosto a proprio agio anche in ambiti più tradizionali.

Ma è solo quando i ritmi rallentano che paiono davvero aprirsi le porte dell'inferno per lasciare scaturire i capolavori: "Doomed Planet", la title track "One Foot In Hell", la caotica "The Fire" sono paludi d'odio e sadismo in cui la band sembra trovare il proprio ambiente naturale, il terreno più fertile per musicare l'apocalisse. Ed è proprio in questo quadro che tutta la cifra musicale dei Cirith Ungol sembra volersi condensare in due canzoni: "Chaos Descends" e "Nadsokor". La prima, marcia funebre per l'umanità dal riffing solido e ipnotico, rimarrà tra i punti più alti di tutta la produzione della band. La seconda è semplicemente tra le più belle canzoni metal che siano mai state scritte: una cattedrale sonora, fondata su un attacco di batteria che cresce come la furia di un esercito in marcia, su un riff efficacissimo quanto esaltante nella sua semplicità, devastata dalle urla di Baker, ridotta in macerie dall'intrecciarsi delle chitarre nell'ispiratissimo finale assolistico. Il concetto stesso di heavy metal viene concentrato in 4:44 di odio e melodia, dolore e passione: imprescindibile per chiunque voglia ascoltare questo genere.

La maledizione dei Cirith Ungol finì per investire anche "One Foot In Hell". Le leggende narrano che, per pagarsi lo studio di registrazione, Baker e soci furono costretti a fare i venditori porta a porta di cosmetici, il disco, una volta pubblicato, non ebbe il successo che avrebbe meritato e la band dovette aspettare ben cinque anni, e sopravvivere all'abbandono di Fogle e del carismatico bassista Flint, prima di vedere pubblicato l'ennesimo capolavoro sfortunato della propria discografia ("Paradise Lost" del '91, penalizzato da una distribuzione poco più che rionale).

Il 20 agosto 1998, a causa di un'insufficienza epatica, moriva Jerry Fogle. Si dice che per pagarsi le spese mediche abbia dovuto vendere tutti i cimeli che gli rimanevano dai gloriosi tempi dei Cirith Ungol.

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