I Coil nascono nei primi anni '80 dall'incontro del talento dei già navigati John Balance (ex Psychic TV, di recente scomparso) e di Peter Christopherson (ex Psychic TV e membro fondatore dei seminali Throbbing Gristle). La loro musica si presenta come una bizzarra alchimia di sonorità industriali, elettronica e dark wave. Chiunque voglia penetrare nell'insano e perverso mondo dei Coil, dovrà passare necessariamente da questo "Horse Rotorvator", opera targata 1986, considerato da molti (compreso il sottoscritto) come il loro capolavoro assoluto. Meno sporco e malsano del debutto (il valido "Scatology", uscito due anni prima), rappresenta un notevole passo in avanti sia in sede di song-writing sia per quanto riguarda la cura degli arrangiamenti e della produzione (ascoltate come suona e poi riflettete sul fatto che siamo nell'86!), con un'attenzione al dettaglio tale da far gridare al miracolo. La sensazione che si ha ascoltando queste note è difficile da definire, poiché raramente ci si imbatte in un lavoro così intrinsecamente contrastante, frutto non a caso di due personalità profondamente antitetiche e complementari, quella folle di Balance e quella maggiormente ordinata e razionale di Christopherson, (suo il merito di incanalare, sviluppare e di rivestire di perfezione formale la creatività debordante, immediata ed anarchica del primo).

Un lavoro, il loro, capace di portare in sé elementi lontani e stridenti: raffinato e al tempo stesso kitsch, alto intellettualmente ed al tempo stesso volgare, tanto che l'impressione è di essere inculati a sangue nel lindo cesso di una galleria d'arte contemporanea. Quello che più stupisce è che nella dimensione Coil i mondi dell'Eros e del Tanatos non si trovano affatto in contrasto, bensì coesistono, anzi coincidono, sono la stessa cosa, sublimati nel concetto di eccesso. Tutto è eccessivo nei Coil. Se essi si meritano una etichetta, quella è di certo "musica eccessiva": i temi sono quelli canonici dell'amore e della morte, ma qui vengono trasfigurati ed estremizzati dalla follia e dalla tossicodipendenza, cosicché il primo non può che divenire perversione e la seconda non può che essere violenta. Da qui le riflessioni sulla morte, il gusto per la perversione sessuale, il tutto affrontato con piglio intellettuale e con il linguaggio dell'arte e dei riferimenti letterari, su tutti quelli all'opera di William Burroughs.

Da un punto di vista strettamente musicale, ci troviamo di fronte ad una musica varia e complessa, che definire industriale può risultare fuorviante, poiché riesce a fagocitare in sé i generi più disparati, dall'elettronica sofisticata all'ambient più oscuro, dal jazz al dadaismo, dal noise al gothic. Esempi concreti? Beh, si può dire che non siamo lontani da quanto proposto dai Virgin Prunes in "If I die, I die", gruppo e disco a cui i nostri si rifanno alla grande. Ma non basta, i Coil ci portano ancora più là, per questo per avere una giusta idea della loro musica dobbiamo prendere gli stessi Virgin Prunes e frullarli assieme a Cabaret Voltaire, Throbbing Gristle, Einstürzende Neubauten, Can, Kraftwerk e Depeche Mode. Altra indicazione importante: poiché Balance ha di frequente collaborato con Current 93 e Death in June, io nel pentolone butterei anche una manciata di misticismo e un pizzico di folk apocalittico (non a caso, lo stesso titolo dell'album è ripreso dai versetti biblici dell'Apocalisse). Ma attenzione, non siamo di fronte a dei cantori della fine del mondo, anche se spesso, in modo del tutto erroneo, si usa considerare i Coil facenti parte del calderone del folk apocalittico, proprio in virtù dell'amicizia che legava il loro leader con David Tibet e Douglas P.: certo i toni sono malsani, ma l'atmosfera solo a sprazzi si fa eccessivamente tesa, e a volte capita persino di ridere, poiché vi è una buona dose di senso di humour (nero ovviamente) che funge da antidoto per stemperare la tensione.

La musica dei Coil è quindi un'entità essenzialmente schizofrenica, inafferrabile, dominata dai repentini cambi d'umore, in cui coesiste un lato più grottesco, quasi surreale, che possiamo trovare anche divertente, ed uno più morboso, terribilmente morboso, così morboso che può mettere davvero paura, proprio perché inaspettato. Il tutto condito da uno spiccato gusto per l'eccesso, per lo sberleffo e per il kitsch, cosa che non deve indurci a pensare nel modo più assoluto che la musica dei Coil non sia seria: tutt'altro, la loro musica è seria, serissima, poiché ci troviamo innanzi a musicisti preparati e competenti, che si portano dietro anni d'esperienza (non scordiamoci che lo stesso Christopherson è stato un pioniere nell'utilizzo di tape e sampler), di musicisti con del reale talento che sanno quello che fanno e che possiedono piena padronanza delle loro capacità espressive.

Se ancora non vi siete decisi all'acquisto a scatola chiusa, allora mi toccherà prodigarmi in una scansione track by track, poiché mi sentirei in colpa se non vi convincessi del fatto che davvero questo lavoro è da possedere a tutti i costi, qualsiasi sia la musica che ascoltiate! Si parte con l'atmosfera da fiera di "The Anal Staircase" (già il titolo è un programma!), una folle fanfara in cui il drumming tribale e il canto invasato di Balance guidano un'allegra processione di tromboni, campanelli, schiamazzi di bambini e incursioni rumoristiche di ogni genere. Con "Slur" abbiamo una continuità nell'elemento tribale, ma i toni si smorzano in una specie di pop (?!) elettronico dai suoni curati ed originalissimi, che può ricordare vagamente "Sweetest Perfection" dei Depeche Mode: si ha di fatto lo stesso incedere ipnotico, e le voci, quella suadente ed oscura di Balance e quella da eunuco dell'amico Marc Almond (qui in veste di guest), richiamano quelle ben più note di Gahan e Gore. "Babylero" è un breve e schizzata parentesi che mette in risalto le doti di Christopherson, qui intento a violentare una allegra filastrocca infantile. I rumori di una tranquilla sera d'estate (il cantare dei grilli, una chitarra latina in lontananza, l'abbaiare di un cane) introducono l'atmosfera mediterranea di "Ostia (The Death of Pasolini)", il capolavoro nel capolavoro, l'estremo saluto che i nostri tributano al grande artista italiano assassinato in circostanze mai chiarite proprio nel litorale romano: si tratta di una avvolgente requiem in cui le minimali trame delle tastiere di Chrisfopherson si vanno ad intrecciare con un azzeccato arrangiamento di archi dal sapore est-europeo. Le malinconiche ed oblique vocals fanno il resto, svelando una sensibilità ed un tatto che non ci si aspetterebbero da uno come Balance. "Herald" è un altro breve e festoso intermezzo che ritrae il festoso baccano di una sgangherata banda di paese, ricordandoci non poco le atmosfere care a Bregovich: il compito è evidentemente quello di allentare la tensione accumulata con il brano precedente, e di aprire all'incedere minaccioso e violento di "Penetralia", una lunga traccia strumentale. Qui a dominare è il massiccio battito della drum-machine, che viene accompagnato dai colpi spietati di una chitarra elettrica e dalle devastanti incursioni elettroniche ad opera dei due polistrumentisti. L'assolo dissonante del clarino di Stephen Thrower (già presente come ospite nell'album precedente, e adesso entrato in pianta stabile nel gruppo), si unisce all'orgia sonora, concedendosi anche un breve intermezzo sconfinante nei lidi dell'avant-jazz. Gli esperimenti rumoristici proseguono, seppur con un approccio più minimale, in "Ravenous", un'altra strumentale, nella quale è possibile seguire le evoluzioni di suoni non esattamente codificabili, forse versi di gatti, elefanti e uccelli che si azzuffano in un groviglio che, se non fosse per le trame inquietanti della tastiera (che pongono il contenuto della song sotto l'ottica inquietante di un rituale), non stonerebbe in un album di avant-noise come "Creatures Comfort" dei Black Dice. "Circle of Mania" è invece un brano folle ed imprevedibile (non a caso c'è lo zampino di Jim Thirlwell aka Foetus!) dominato dai cambi d'umore del singer. Un andamento da cabaret ai limiti dello swing (con tanto di basso pizzicato e fiati incalzanti) fa da sottofondo ad un Balance euforico e sopra la righe che dà sfogo a tutta il proprio range espressivo: sussurri, ammicchi, falsetti demenziali, urla improvvise, risate isteriche, pianti, latrati, e mugolii, deliri di ogni tipo e perversioni di ogni specie per una performance che pone in serio imbarazzo gente come Mike Patton e Jonathan Davis: sentitelo mentre simula un amplesso al grido di "Fucking the ground, fucking the ground, the hole in the ground!", e poi capirete.  Certamente uno dei momenti più folli della storia del rock!

L'euforia si muta in gelo con "Blood from the Air", una parentesi macabra, in cui la fredda elettronica di Christopherson disegna scenari notturni ed apocalittici, mentre la voce di Balance torna controllata e minacciosa. Lo scricchiolio della chitarra elettrica e le improvvise deflagrazioni di rumorismo incontrollato fanno di questo pezzo qualcosa di veramente inquietante. Un verso come "Death, he is my friend, he promised me a quick end", alla luce di quello che accadrà un sabato pomeriggio di 19 anni dopo, assume i toni di una sinistra profezia. È il turno della cover della celebre "Who by Fire" del cantautore canadese Leonard Cohen, qui in versione funerea e rallentata, ma ancora riconoscibile, sebbene venga spogliata della sua chitarra acustica e rivestita con i gelidi suoni del sinth: un altro brano pacato, dall'incedere misticheggiante e minaccioso, quasi biblico, in cui tornano i leziosi ricami di Marc Almond ad accompagnare il rantolo sbilenco di Balance. Chiudono due strumentali: la prima, l'apocalittica "The Golden Section", con il suo incedere marziale di tromba e tamburo ricorda certe atmosfere care ai Death in June. All'attore Paul Vaughan l'onore di narrare, fra possenti orchestrazioni, la cronaca della fine del mondo. La seconda, la banalotta "The First Five Minutes After Death", forse l'episodio trascurabile del disco, chiude le danze con delle atmosfere gotiche e un po' barocche da film horror. Che dire, un capolavoro assoluto, un lavoro pirotecnico, estremamente curato in ogni suo dettaglio e che ci consegna degli artisti in stato di grazia.

Un'opera densa di soluzioni vincenti e di cambi d'umore che mantengono ben desta l'attenzione dell'ascoltatore dal primo all'ultimo minuto, e in cui non si conta nemmeno un vero momento di cedimento. Da avere, senza se e senza ma! "And murder me. . . in Ostiaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa!"

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