“Ghost Stories” era stato qualcosa di incredibile, di inatteso da una band propriamente pop come i Coldplay, qualcosa di così straordinario al punto da farci pensare che probabilmente non sentiremo mai più qualcosa di simile da loro. Anche perché per una band ormai abituata a riempire gli stadi e avere lo status di macchina da soldi una svolta simile comporta sicuramente molti rischi e quando sei abituato a navigare nell’oro colato è innegabile che vuoi continuare a farlo. Quel coraggioso tentativo di osare pur a costo di non piacere ha sicuramente sorpreso un po’ tutti, soprattutto perché arrivato proprio dopo il “facilino” “Mylo Xyloto” che aveva definitivamente catapultato la band nell’olimpo pop; chi se lo aspettava che i Coldplay avessero il coraggio di fare un disco così “oscuro” potenzialmente in grado di far perdere loro molta popolarità?

Ma forse sapevamo che sarebbe stato soltanto un esperimento. Ecco infatti che “A Head Full of Dreams” li riporta su un pop-rock diretto ma genuino. Canzoni piuttosto semplici e dirette ma molto ben curate negli arrangiamenti; probabilmente il secondo disco spudoratamente “chart-pop” realizzato dalla band dopo il criticabile “Mylo Xyloto” (che tuttavia non ho mai schifato come molti altri) ma chiaramente migliore di quest’ultimo; se “Mylo Xyloto” infatti mostrava una certa tendenza a proporre arrangiamenti un tantino piatti e spudoratamente dettati dalla voglia di fare business questo invece ha una cura dei particolari sicuramente migliore, soprattutto riguardo al lavoro della chitarra. Sappiamo che il pop moderno è spesso un’accozzaglia di banalità se non addirittura di merda ma i Coldplay dimostrano di saper fare pop in maniera ben più decente di molti altri colleghi e meritano rispetto per questo.

Il lavoro si presenta piuttosto vario e oscilla fra pezzi al limite del funk, ballate e brani che strizzano l’occhio all’r’n’b (genere che nella sua accezione moderna ci ha propinato vere e proprie schifezze ma come già detto sopra i Coldplay qui fanno tutto in maniera molto più decente); l’enfasi è sulla chitarra (piuttosto in secondo piano nel disco precedente), brillante e frizzante in tutto il disco come anche sul pianoforte, minore è l’enfasi sull’elettronica rispetto al disco precedente ma anche qui è abbastanza massiccio l’utilizzo delle percussioni elettroniche.

Apre il disco proprio la titletrack; avevo apprezzato l’esperimento house di “A Sky Full of Stars” (anche in questo genere hanno dimostrato di sapersela cavare ove gli altri hanno fatto vere e proprie ciofeche) e speravo che ciò non fosse soltanto una piccola parentesi… ed ecco che qui dopo i suoni psichedelici dell’intro propongono un mix di disco e funk con una chitarra frizzante e sgargiante e una melodia intensa e notturna, da bella serata. “Birds” invece propone un pop-rock dal ritmo veloce e sostenuto caratterizzato da un buon lavoro di chitarra e un ritornello brillante, come anche degli efficaci innesti orchestrali verso il finale. L’incursione nell’r’n’b la si ha con “Hymn for the Weekend” dove spunta la voce di Beyoncé; la scelta di duettare con un personaggio proveniente da quella feccia musicale verso la quale non finirò mai di essere critico (non esserlo sarebbe da persona non obiettiva e non da vero critico musicale) appare piuttosto discutibile (anche se la feccia non è Beyoncé in sé ma il modo in cui si approccia alla musica dato che una con la sua voce potrebbe impiegare le proprie doti per fare cose decisamente migliori) ma nonostante il brano sia evidentemente ruffiano l’arrangiamento non è scadente, ben guidato da piano e chitarra e con intelligenti inserti di ottoni nel ritornello.

Si cambia registro con “Everglow”, un’ottima ballad al piano sostenuta da percussioni elettroniche. Tuttavia il registro cambia nuovamente ed ecco la vivace “Adventure of a Lifetime”, con il suo funk acceso guidato dal suo ripetitivo e ipnotico passaggio di chitarra. Segue un’altra ballad intensa, forse la più intensa ed emozionante, “Fun” (cantata con la svedese Tove Lo), guidata da chitarre melodiche e sognanti.

L’intermezzo pianistico “Kaleidoscope” ci guida verso l’incredibile atmosfera di “Army of One”; la scelta del potente suono di un organo, sostenuto da un utilizzo piuttosto ipnotico dell’elettronica, si rivela incredibilmente efficace, quest’organo crea un’atmosfera assolutamente insolita per un brano da classifica; è un suono che coloro che vivono la musica come un semplice svago e non come qualcosa da ascoltare attentamente vedono sempre piuttosto male, lo ridicolizzano, quante volte sentendone suonare uno dicono “ma che è ‘sta roba, siamo in chiesa?”… personalmente mi fanno molto più ridere le fisarmoniche campionate dai dj moderni solo perché va di moda o per far vedere di essere “originali”. In coda al brano vi è pure una traccia fantasma che colpisce con il suo minimalismo elettronico. C’è poi un’altra ballad intensa ed emozionante, “Amazing Day” con quel suo andamento lento e rilassato che ricorda molto “Always in My Head”. Dopo l’intermezzo psichedelico “Colour Spectrum” che riprende l’intro dell’album si chiude con “Up&Up”, l’unico brano forse deludente dell’album, un r’n’b decisamente spento, un sound pacchiano al massimo con una melodia che non si rivela molto coinvolgente, sembra proprio il classico brano che “massì, chissene se la melodia è scadente tanto il sound è da classifica e quindi spaccherà comunque”; unico neo di un disco complessivamente molto buono.

Mi sarebbe piaciuto di più se “Ghost Stories” non fosse stato solo una parentesi sperimentale e avesse invece aperto una nuova fase ma non posso comunque non godere di fronte al pop-rock ben confezionato di quest’album.

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