Fra i non tantissimi “dinosauri” del rock anni ’70 capaci di riciclarsi alla grande in tempi più recenti è giusto annoverare anche questi Colosseum, i quali incocciarono nel loro “meteorite” distruttivo molto presto, già nel 1972 ma poi si sono ricompattati negli anni novanta riuscendo a produrre un pugno di album ancora eccellenti. Questo qua è il primo di essi, datato 1997.

Colosseum è un gruppo decisamente crossover comprendente un cantante blues, un sassofonista jazz, un tastierista progressive, un chitarrista ed un bassista rock. Tutta questa gente assemblata dal capobanda Jon Hiseman, assoluto fuoriclasse della batteria a suo agio nel rock, nel jazz, nel blues, nel progressive… in tutto insomma: un vero dio del ritmo!

Il secondo ciclo di carriera dei Colosseum passa attraverso brani di durata normale, tutti oscillanti fra i quattro e i cinque minuti. Gli assoli corposi, le mezze suite e le code strumentali lunghissime vengono lasciati alle esibizioni dal vivo. Qui si bada a proporre canzoni con strofe ritornelli ed assolo centrale o finale, ma il talento e la creatività di questo manipolo di squisiti musicisti, alcuni di loro veri fuoriclasse (il sassofonista ed il batterista) emergono comunque alla grande.

Si inizia con un roccioso rock blues a nome “Watching Your Every Move” pilotato dal doveroso, nodoso riffone di chitarra ma poi l’assolo, gustoso anzichenò, è di sax tenore. La canzone eponima dell’album che segue subito dopo è un up-tempo, abbellita da inusuali contrappunti orientaleggianti delle tastiere.

Wherever I Go” è una ballata rhythm & blues condotta dai bellissimi accordi di Hammond. La forte e ricca voce di Chris Farlowe, una specie di Jack Bruce ma con un timbro ancor migliore, eleva il pathos del brano e lo fa ulteriormente il passionale solo di chitarra del mai abbastanza apprezzato Clem Clempson, degno divulgatore del mirabile, maschio suono della Gibson Led Paul Standard, un gioiello di strumento che mai andrà fuori moda.

High Time” è un soul funky scolastico, senza molta personalità ma con tutti gli ingredienti al loro posto, tipo il liquido assolo di organo Hammond. Più sfiziosa la successiva “Big Deal” che tira decisamente verso il cool jazz, appoggiata e notturna. Magari non adattissima alla voce squillante ed enfatica di Farlowe, ma ugualmente fra i vertici del disco. Siamo in una di quelle atmosfere rese al massimo dei massimi nel prodigioso album di Donald Fagen (Steely Dan) “The Nightfly”, del 1981, capolavoro!

The Playground” è l’unico contributo alla voce solista del chitarrista Clempson e poggia su arpeggi e ritmi jazzati di adamantina classe. La voce è povera, però tutto il resto è super: Dave Greenslade all’organo si mette a suonare Bachiano come il sommo Mattew Fisher (Procol Harum), il sax fa quello chi ci si aspetta che faccia dato il soggetto in azione ed insomma questa canzone esplica alla massima potenza l’esatta definizione di jazz rock: accordi imprevedibili ed interessanti, cambi d’atmosfera, rotazione degli strumenti al proscenio, classe assoluta da parte di tutti.

No Pleasin’” dispiega con forza l’incredibile drive che John Hiseman detto Jon metteva nelle sue bacchette e nei suoi pedali. E’ un fusion blues dall’esteso impianto melodico, anche armonicamente molto ricco e abbellito da un fluido, doppio assolo chitarristico, il migliore dell’album. Il meglio del sax lo si trova invece subito dopo nella ballata rock jazz “I Could Tell You Tales”: la “voce” di Heckstall Smith al tenore è impagabile. La stessa cosa su “Storm Behind the Breeze”, ballata peraltro nuovamente un po’ scolastica dopo che le precedenti erano invece ripiene di sorprendenti successioni di accordi ed ariose campate melodiche. Chris Farlowe vi sfoggia in ogni caso tutta la sua maschia emissione soul, ripiena dell’abituale enfasi.

The One That Got Away” è invece uno strumentale dominato dall’organo Hammond che si fa via via doppiare dalla chitarra e poi anche dal sax, in un arrangiamento compatto e scorrevole, piacevolmente equilibrato, senza strafare. Serve da preambolo alla chiusura con “The Other Side of the Sky”, insolitamente drammatica e cadenzata, vero palcoscenico per la consumata abilità del fiatista nel suonare contralto e tenore contemporaneamente, infilandosi entrambi i bocchini in bocca ed immagino la forza polmonare necessaria a questa tecnica.

Un peccato che questi album fuori tempo massimo, frutto del felice ricongiungimento di musicisti ormai da tempo ridiscesi dalla loro cresta dell’onda, siano preda e piacere dei pochi appassionati che conservano ricordi indelebili dei loro tempi d’oro, nonché l’intatta voglia di seguirli e di provare a vedere se le buone sensazioni (“vibrazioni”, si diceva una volta) siano ancora avvinte alla loro musica. Nel caso dei Colosseum, la risposta è sì: questo lavoro non ha nulla da invidiare a quelli di fine sessanta/inizio settanta.

Carico i commenti... con calma