A quanto pare Conor Oberst questa volta non si aspettava affatto di scrivere un nuovo disco. Cioè, questa cosa non era affatto nei suoi piani e nelle sue intenzioni quando ha deciso di 'ritirarsi' per un periodo di riposo a Omaha, nel Nebraska. Solo che poi ci ha raccontato di questo inverno nella città di Omaha e di come tutto lì durante questo periodo fosse paralizzato e immobile e di quanto questo in qualche modo lo abbia ispirato, così che di conseguenza ha cominciato a restare sveglio fino a tardi a suonare il piano e guardare la neve che scendeva lenta fuori dalla finestra.

Insomma, non si aspettava di scrivere quello che alla fine è probabilmente uno dei suoi migliori dischi, se non il migliore, in quella discografia così vasta e sempre in continua crescita sin dagli anni novanta e in particolare da quando come 'Bright Eyes' fu universalmente considerato come il 'bambino d'oro' di una nuova generazione di songwriters e allo stesso tempo uno dei principali rappresentanti del movimento 'indie' di quegli anni.

Da quel momento, specialmente dopo la doppia release nel mese di gennaio 2005, quando uscirono contemporaneamente 'Digital Ash in a Digital Urn' e 'I'm Wide Awake, It's Morning', la sua carriera è decollata. Non c'è stato un momento di pausa. È andato avanti come una macchina a registrare sempre nuova musica e a essere coinvolto in sempre più progetti, a volte guidati da lui in prima persona (solo lo scorso anno ha pubblicato l'ultimo lavoro con i Desaparecidos), altre volte collaborando con artisti e amici più o meno conosciuti nella scena musicale indie (giusto per menzionarne due o tre, Arab Strap, alt-J, Bon Iver...).

In via generale e senza entrare troppo nel particolare, ci sono due scuole di pensiero maggioritarie per quello che riguarda la creatività o comunque la ricerca di ispirazione. La prima considera che sia sempre centrale e necessario, fondamentale circondarsi da artisti e altre persone che siano in qualche modo 'ispirate' e frequentare quelli che si potrebbero considerare i posti giusti e dove 'succedono le cose'. Respirare cultura, interagire con altre menti, entrare in contatto con altre persone che praticano una qualche arte. Aprirsi al mondo esteriore frequentando contesti 'approdiati'. Una scuola di pensiero che forse è in qualche modo 'moderna', forse no. Non lo so. In un primo momento ho pensato subito a Andy Warhol, che ovviamente era solito stare sempre in compagnia di artisti di ogni tipo e coinvolgere se stesso e gli altri in ogni tipo di attività creativa. Ma d'altro canto non è stato sicuramente il primo a fare qualcosa del genere. Senza divagare, penso ai circoli letterari, che hanno una tradizione centenaria e voglio dire, sono qualche cosa che ha ancora oggi un senso, anche se le industrie che riguardano la pubblicazione siano evidentemente in crisi. Anzi, vi dirò, a quanto pare, parlo per esperienza personale, devi essere necessariamente (prima) parte di uno di questi circoli e associazioni per poter essere uno scrittore. Altrimenti niente. Né pare sia possibile il contrario. Cioè prima scrivere, essere uno scrittore e poi eventualmente frequentare attivamente uno di questi posti.

Ma torniamo a parlare delle scuole di pensiero e della seconda, che ovviamente pretende che l'artista debba necessariamente attraversare o comunque passare dei lunghi periodi di solitudine. Una specie di ritiro completo. Un percorso ascetico che vuole essere allo stesso tempo sobrio e severo, qualità che qualificano in se stesse questo ritiro e che danno all'artista lo status mentale necessario per ottenere quello che vuole e esprimere quelle che siano veramente profonde sensazioni e emozioni.

Giusto per aggiungere un altro tassello a questa breve rappresentazione, c'è anche quella che si potrebbe definire una terza via. Ne accenno senza nessuna faciloneria o volere sponsorizzare e appoggiare l'uso di droghe (così come non considero un qualche cosa di positivo anche praticare qualsiasi percorso ascetico). Mi riferisco ovviamente all'uso di queste (le droghe) come strumento 'per aprire la mente'. Potremmo citare decine, centinaia di esempi in tal senso all'interno della storia del rock'n'roll a partire dagli anni sessanta in particolare e con il diffondersi della cultura hippie fino a dichiarazioni più recenti anche da parte di artisti molto popolari come Damon Albarn. Senza considerare il contributo del mondo della letteratura con 'The Doors of Perception' di Aldous Huxley, le sperimentazioni condotte su se stesso da William Burroughs e tutta la cultura della letteratura beatnik che insiste sui buoni effetti delle droghe per quello che riguarda la loro ispirazione e in generale sui benefici derivanti dall'assunzione su quello che è il livello della qualità delle loro vite.

In questo caso, nel caso di questo ultimo disco di Conor Oberst, potrebbero esserci delle connessioni con il secondo esempio citato. Oberst vive a New York City e fa praticamente un sacco di cose ed è continuamente in tour negli USA oppure in giro per il mondo, di conseguenza la solitudine in questo caso, più che una scelta vera e propria e che avere a che fare con la ricerca di ispirazione, è dovuta alla necessità di prendersi una pausa e rilassarsi. Qualche cosa che invero si è reso assolutamente necessario dopo che, a quanto pare (stando a una certa stampa musicale più o meno attendibile), durante i lavori dell'ultimo disco con i Desaparecidos, fu ricoverato per laringite, ansietà e esaurimento nervoso. In ogni caso questo non fa che andare a favore della tesi secondo la quale il suo 'buen retiro' a Omaha fosse in pratica una vera necessità per attraversare un periodo di pace.

Che poi il risultato di questo periodo passato a Omaha durante l'inverno potesse diventare un vero e proprio disco, ecco, questo era qualcosa di imprevedibile. 'Ruminations' (Nonesuch Records) in uscita il prossimo 14 ottobre, è stato scritto e concepito per essere suonato dal solo Conor Oberst e semplicemente con l'apporto della sua chitarra, del suo piano, l'armonica e ovviamente dei suoi testi. Solo più tardi ha deciso di farne un disco, per forza di cose solista e necessariamente completamente acustico, registrato presso gli ARC Studios (il suo studio, costruito con il suo compagno ai tempi dei Bright Eyes, Mike Mogis) con il tecnico del suono Ben Brodin in sole quattordici ore.

Prenderei in considerazione tre autori, tre punti di riferimento per queste dieci canzoni registrate da Conor Oberst e nello stile che egli ha adoperato nella fase di creazione. Chiaramente, precisiamolo, il disco intero è permeato tutto da quello che è comunque il suo stile peculiare e che affonda le radici nella cultura indie, che a sua volta sicuramente paga omaggio a artisti come Jad Fair e soprattutto Daniel Johnston, il più grande outsider nella storia dei cantautori americani e in un certo senso il 'papà' ideale del lo-fi.

D'altro canto, di sicuro Conor Oberst non è mai stato un vero e proprio 'outsider' come Daniel Johnston (ammesso qualcuno possa mai essere outsider quanto lui), le sue canzoni non sono mai state completamente stralunate, pazze, allucinate e anzi considererei come nel tempo egli (Conor Oberst) abbia nel tempo e specialmente negli ultimi sette-otto anni radicalmente innovato il suo stile da quello degli inizi, diventando in qualche maniera meno evocativo e meno ispirato dalla musica e dalla cultura 'indie' vera e propria. Apparentemente inoltre presta molto meno attenzione ai dettagli ed è diventato molto più autentico e in qualche maniera concreto. Oggi Conor Oberst è francamente lontano anni luce da quello che era il suo idolo di gioventù, Robert Smith: il nuovo disco potrebbe essere definito rurale oppure rustico, crudo, nudo e allo stesso tempo anche in qualche modo selvaggio. Selvaggio come possono essere i paesaggi invernali del Nebraska ovviamente.

A parte Daniel Johnston, ho pensato a Bob Dylan, perché - senza voler fare inutili e ingombranti confronti - in un certo senso anche la figura di Oberst ha affrontato svariati processi di mutazione, certo non tanti quanto quelli dell'uomo di Duluth e pure diversi, ma in ogni caso c'è stata una crescita artistiva, o comunque una svolta, e poi c'è il discorso che riguarda la voce. In nessuno dei due casi parlerei di quella che potrebbe essere definita esattamente una 'bella voce'. Una voce melodiosa secondo i canoni tipici. Per quello che riguarda Conor Oberst in particolare, direi che la sua voce potrebbe essere definire persino stridente. Eppure questa stessa ha quella grande capacità di assumere diverse tonalità e di essere in qualche modo e forse proprio per quello che è, tremendamente espressiva. C'è sempre ancora oggi qualche cosa di commovente nella voce e nei testi di Conor Oberst, e le sue parole sembrano scivolare lente e fastidioso in una specie di confessione musicale con la quale ci trasmette il suo stato mentale e quelli che sono i suoi impulsi.

Il terzo e ultimo rifrimento va per forza a Bruce Springsteen e non solo perché la città di Omaha e nello Stato del Nebraska, quello celebrato da Springsteen in uno dei suoi dischi migliori (il migliore), ma anche perché, come già accennato, c'è qualche cosa di selvaggio in questo disco e lo stesso in quello di Springsteen. Qualche cosa che evidentemente accade in maniera inevitabile quando entri pienamente in contatto con la realtà che ti circonda e in questo caso quella di Omaha e conseguentemente quella dello Stato del Nebraska.

Ma i contenuti delle canzoni del disco sono comunque molto personali e relativi la fragilità dell'essere umano e la sua ricerca di qualche cosa che gli dia conforto in una specie probabilmente di una specie di simmetria e empatia con l'ambiente che lo circonda. Ci sono la ricerca di una fuga dalla frenesia della vita di tutti i giorni, qualche cosa che per forza di cose sia quindi anche autobiografico; c'è il contrasto tra la volontà di fare musica e stare in giro per il mondo, entrare in contatto con gli altri, con altri musicisti, con chi ascolta la tua musica, con qualunque altro essere umano e di aprirsi quindi completamente al mondo, e allo stesso tempo il bisogno di smetterla con tutto questo, rinchiudersi in se stessi come a volersi proteggere dal mondo esterno e da qualche cosa che appare dannoso, un processo di autodistruzione. Ma in questo caso non parlerei di convinzioni oppure di sentenze, anche perché del resto lo stesso atto di uscire e registrare questo disco, voglio considerarlo come una spinta verso il ritorno e magari verso il nuovo. Niente di definitivo quindi. In pratica 'ruminations': elucubrazioni. Niente altro che elucubrazioni.


  • Pinhead
    4 ott 16
    Recensione: Opera:
    Quando hai fatto riferimento al Nebraska, nelle prime righe, mi è subito venuto in mente l'album di Springsteen, e me lo sono ritrovato alla fine: quel disco ha una forza evocativa più unica che rara.
    Qualcosa del signor Oberst me la vado a sentire, potrebbe piacermi.
    • Pinhead
      4 ott 16
      Infatti, ascoltato e piaciuto, mi sa che questo lo metto in lista di acquisto. Grazie per la segnalazione.
    • sotomayor
      6 ott 16
      E cazzo. Che bella cosa. Davvero. Sono proprio contento. Cioè, io ho scritto una recensione, tu hai ascoltato qualcosa e ti è piaciuto. Guarda che, nonostante tutto, sto fatto su Deb a me capita proprio raramente. Sarà che non è che ricevo molti commenti, non lo so, ma insomma... Bello. Fammi sapere.

      Nessun confronto con un gigante come 'Nebraska' alla fine ovviamente, nel senso, nessuna competizione. A parte la grande di Springsteen, anche i contenuti sono diversi, ma c'è comunque una certa 'crudezza' che forse è proprio tipica di quelle parti.
    • Pinhead
      6 ott 16
      Ma guarda, per me l'unico scopo di scrivere su DeBaser è proprio quello incuriosire il lettore, e tu sei bravissimo a farlo. Poi non sempre le tue proposte incontrano il mio gusto, ma questo è tutto un altro discorso.
    • sotomayor
      8 ott 16
      Be', sono d'accordo con te. Devo dire che forse anche per questo trovo sempre un po' strano che su deb ci siano in genere meno recensioni di dischi 'nuovi' e più di classici. Anche se poi ogni tanto alcuni sono bravissimi a tirare fuori una di quelle chicche che conoscono in pochi e allora.

      Anche se poi, mi contraddico subito, e dico che su Deb per fortuna c'è sempre un nuovo flusso di arrivi e una specie di rinnovamento di generazione in generazione. Di conseguenza penso che anche la recensione di classici e/o dischi cosiddetti 'vecchi' abbia senso. Per forza.

      Grazie per l'apprezzamento. Sinceramente, a parte tutto, scrivo anche semplicemente per il piacere di scrivere e in qualche modo per lavorare sul mio modo di esprimermi in una maniera sincera e priva di schermi. So che sembra molto strano, ma la considero una pratica volta a lavorare sulla mia personalità e identità in generale.
    • sotomayor
      8 ott 16
      Comunque strano pochi si siano cagati questa recensione. Cioè non lo dico per i contenuti, dico proprio per il fatto che in pratica dieci-quindici anni fa, Conor Oberst aka Bright Eyes era tipo il dio dell'indie. Non me ne sono manco accorto che già non se lo fila più nessuno.
    • Pinhead
      8 ott 16
      Per me era un completo sconosciuto, me lo hai fatto conoscere tu.
    • sotomayor
      11 ott 16
      Fammi sapere del disco poi. ;)
  • IlConte
    4 ott 16
    Recensione: Opera:
    Caro amico in questo periodo sei un fiume in piena... Una gran bella piena... Ovviamente fai friggere ciò che rimane del cervello di un vecchio usurato nobile con tutte le citazioni ahahah sei un grande mon ami!
    Ovviamente non so chi sia ma da te arrivano sempre ottimi suggerimenti anche per un selvaggio... Un abbraccio!
    • sotomayor
      6 ott 16
      Questo ragazzo all'inizio degli anni duemila con il nomignolo 'Bright Eyes' era considerato un po' il simbolo del movimento cantautoriale indie. Nel tempo ha modificato molto il suo stile e anche per questo forse ha perso del seguito. Non credo abbia acquisito nuovi ascoltatori, sia quelli vecchi che quelli nuovi fanno sempre riferimento ai dischi di quel periodo, mentre invece io trovo che adesso scriva canzoni molto più concrete. Vorrei linkarti un fottuto streaming, ma non riesco a trovare niente.
  • lector
    4 ott 16
    Recensione: Opera:
    Mi citi Jad Fair e Daniel Johnston! Allora mi deve piacere per forza.
    • sotomayor
      6 ott 16
      È un dischetto che secondo me apprezzeresti per forza nella sua totale schiettezza e semplicità.

Ocio che non hai mica acceduto al DeBasio!

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