La sponda musicale che nessuno si cagava. Almeno in Italia, dove nel 1973 molta gente neanche sapeva di preciso dove stesse il Giappone. Era un posto lontano, uno dei tanti. Mica c'era Internet con la sua informazione gratuita a basso costo, mica tutti avevano la televisione, mica tutti arrivano anche solo a pensare di potersi iscrivere all'università, mica l'analfabetismo era ancora stato sconfitto. Gli scambi culturali fra l'Est e l'Overst ci sono sempre stati ma solo in quel periodo cominciavano ad essere espliciti e noti alla gente comune, e se non eri i Beatles o i Led Zeppelin (o i Deep Purple, ovvio) difficilmente ti capitava di essere ascoltato a diversi fusi orari di distanza. Bisogna aspettare "Thriller" di Michael Jackson per vedere un album "occidentale" vendere più di un milione di copie dall'altra parte del globo. C'erano ancora fette di mondo che vivevano come villaggi. In una di queste, il Giappone appunto, il J-Rock cominciava ad affermarsi grazie ad aritsti che si ispiravano ai grandi miti occidentali e percorrevano nuove strade sonore mischiando elementi della propria tradizione musicale a quelli dei modelli da cui traevano ispirazione.

I Cosmos Factory, band di Nagoya che prende il nome da un album dei Creedence Clearwater Revival, uscivano quasi quarant'anni fa con un disco d'esordio che proponeva un ProgRock psichedelico misto di artisti come Pink Floyd, Vanilla Fudge e Iron Butterfly, con tutti gli elementi tipici del genere: chitarra elettrica ora ululante e spavalda, ora ruvida e secca, basso, batteria concentrata sui piatti, tastiera onnipresente, pianoforte, organo Hammond, Mellotron, violino. La musica proposta dal tastierista Tsutomu Izumi e soci è cupa come l'immagine scelta per il titolo del disco, le parti sono chiaramente due: la prima più melodica si apre con la strumentale "Soundtrack 1984" introdotta da battiti acidi di basso supportati dalle tastiere sulle quali ben presto la chitarra elettrica inizia a divertirsi e si chiude con un altro pezzo strumentale, "Poltergeist", in 7/4. In mezzo fra le due si odono vibranti evoluzioni chitarristiche di Hirashi Mizutani sparse quà e là nell'orecchiabile "Maybe" e nella più rude "Fantastic Mirror" mentre l'atmosfera diventa più leggera durante la lenta ballata "Soft Focus".

La seconda parte è dedicata alla suite che dà il titolo al disco, "An Old Castle of Transylvania", suddivisa in quattro parti per la durata complessiva di una ventina di minuti: "Forest Of The Death", anch'essa strumentale, impiega una vita e mezza a decollare ma poi alla distanza si fa sentire con il duetto fra Hammond e batteria e la chitarra che si infila dove può, "The Cursed" è crepuscolare e sognante, il cantato è dolce e straziato, "Darkness Of The World" pur essendo una composizione più ariosa presenta un tono piangente nel canto di Izumi, come fosse un ricordo da voler gettare al vento, e tastiere ed Hammond stanno sempre lì a far da tappeto in modo da introdurre anche la conclusiva "An Old Castle Of Transylvania", il pezzo che dà il nome alla suite che dà il nome al disco (i fabbrica del cosmo non brillano certo per fantasia).

Il disco si chiude così, con un sunto di ciò che si è ascoltato nei minuti precedenti lasciando l'impressione che anche se non si capisce una beata mazza dei testi (per chi non sa il giapponese, chiaro) le sensazioni cupe e drammatiche che i Cosmos Factory volevano trasmettere arrivino forti e pungenti come frecce. La carriera del gruppo proseguirà per tutto il decennio, tuttavia questo esordio resterà il loro album più rappresentativo.

Elenco e tracce

01   An Old Castle Of Transylvania (18:40)

02   Soundtrack 1984 (03:20)

03   Maybe (05:54)

04   Soft Focus (03:39)

05   Fantastic Mirror (04:27)

06   Poltergeist (04:26)

07   (i) Fantastic Mirror (00:00)

08   (ii) The Cursed (00:00)

09   (iii) Darkness Of The World (00:00)

10   (iv) An Old Castle Of Transylvania (00:00)

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