Una dimensione parallela, un inferno/paradiso popolato da strane figure, esplosioni di fluidi, nuvole acide, raggi di luce monocromatici. Una maschera con tre occhi, sorridente, svanisce in un tripudio orgasmico e acido di lisergica memoria. La cover perfetta per un album che è l'esplosione della creatività, la rottura definitiva dei vecchi schemi della musica intesa come "blues".
Anno 1968, simbolicamente al centro della nuova cultura: un anno prima, la Summer Of Love; poco dopo, nel '69, i Jefferson Airplane, dall'altra parte del mondo, grideranno per "abbattere il muro", mentre gli Zeppelin cominceranno l'inesorabile decollo, destinati a gesta impensabili. Anno 1968, "Wheels Of Fire" dei britannici Cream. Il culmine della loro breve ma densissima carriera.
Un LP diviso in due: l'anarchia moderna della sperimentazione in studio, la battaglia tra i tre membri della band; la viscerali composizioni violentate dal vivo, al Fillmore, dove il vecchio blues viene squartato e riassemblato con distorsioni folli (per l'epoca). "White Room", blues-rock tagliente a firma Jack Bruce (con testo di Pete Brown), inaugura la parte registrata in studio, si prosegue con il bluesaccio "Sitting In The Top Of The World": per qualche mese, lo furono davvero, in cima al mondo, assieme a Hendrix, i Doors e pochi altri baciati dall'adorazione delle folle. Ogni membro ha un suo momento di sfogo: Ginger Baker, poliedrico batterista, ha la sua "Pressed Rat And Warthog", con ritmica tribaleggiante e una preziosa e discreta sezione di fiati (Felix Pappalardi); Eric Clapton esalta i vecchi pezzi con la sua chitarra incandescente, donando assoli rispettosi della classicità a "Born Under A Bad Sign". L'ugola di Bruce svetta pulita mentre il suo basso si fa solista per buona parte del minutaggio.
La seconda metà dell'opera, quella dal vivo, risulta incredibile, storica. Una "Spoonful" dilatata oltre i 16 minuti dove si nota la crepa che farà affondare l'ensemble: ogni membro vuole primeggiare, Clapton e Bruce si sfidano in assoli interminabili, mentre Baker regala (pretende) 16 minuti di assolo tribale con i tamburi percossi senza grazia. Senza dimenticare una celebre "Crossroads" dedita al blues-rock più denso. In "Traintime" Bruce accantona il basso per portare un po' di old-style con la sua armonica.
Questo monumentale affresco rimarrà l'epitaffio del gruppo, non contando live postumi (ed il trascurabile "Goodbye"). Esagerato, prolisso, eccezionale pur nei suoi eccessi: manca la spontaneità di "Fresh Cream" e la giusta misura di "Disraeli Gears", in questo "WHeels Of Fire" c'è di tutto, ed anche troppo.
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