Quando hai vent'anni e ascolti la musica di tuo padre, riuscire a vedere un concerto è praticamente impossibile per i seguenti motivi:

a) i tuoi artisti preferiti sono schiattati già da tre o quattro decenni;
b) i tuoi artisti preferiti sono schiattati più di recente, causa vecchiaia;
c) i tuoi artisti preferiti sono andati finalmente in pensione e ora vivono in panciolle su un'isola del Pacifico, anche grazie ai soldi che gli hai dato – e che continui a dargli - tu;
d) i tuoi artisti preferiti si sono rincoglioniti e ai loro concerti cantano in playback, sempre facendo attenzione che non gli cada la dentiera;
e) i tuoi artisti preferiti chiedono 200 euro a biglietto per un concerto in un palasport sbilenco (vedi anche punto d);

Oppure ancora, in altri casi:

f) i tuoi artisti preferiti sono ancora (più o meno) in forma, si ricordano bene come si canta, come s'impugna una chitarra e come s'incanta un pubblico di circa tremila persone.

Questo è il caso di Crosby, Stills e Nash, che, pochi giorni fa, hanno regalato al pubblico romano (e non) uno splendido concerto all'Auditorium Parco della Musica. Ok, non proprio regalato, ma il prezzo dei biglietti era assolutamente giustificato.

La serata è calda e le hostess distribuiscono provvidenziali volantini a forma di ventaglio mentre indicano agli spettatori dove si trovano i loro posti. Mi guardo intorno: quella che riempie la Cavea non si potrebbe definire proprio una “squadra di gioventù”. I giovani sono pochi, veramente pochi, poi ci sono cinquanta-sessantenni di diverse categorie. C'è l'uomo distinto in completo (nonostante il caldo), l'uomo di mezz'età più “casual” e rocker “troppo cresciuti” e mai pentiti in jeans e maglietta dei Pink Floyd, pelati, ma con una fluente coda brizzolata e baffi alla David Crosby (appunto). Tutti questi signori qui potrebbero essere mio padre. Peccato che io un padre ce l'abbia già e sia seduto alla mia sinistra, nel settore di posti più economico, proprio davanti ad una maledetta balaustra (che, immagino, è stata costruita per impedire che i fan si buttino di sotto per l'entusiasmo o, forse, per la disperazione durante i concerti di Gigi d'Alessio). Ah, non dimentichiamo le donne, ci sono anche quelle: molte di loro sono solo mogli pazienti che hanno accompagnato il marito per assicurarsi che non andasse a trovare l'amante. Alcune sono vestite come se fossero all'Opera (o all'opera in altri sensi...), poi ci sono le vere ragazze dei ruggenti anni Settanta, come la signora seduta alla mia destra che, ad un certo punto, mi fa notare che lei con “questa musica” ci è cresciuta ed io no.

Alle 21 precise le luci cominciano a spegnersi, ma la Cavea non è ancora piena e la gente continua ad affluire (italiani, i soliti ritardatari...). Poco male, il concerto comincia lo stesso. Sul palco fanno la loro comparsa tre simpatici anziani: due ancora prestanti, uno (Crosby) un po' provato, grasso, goffo, ma non stanco. E che fascino, quel Graham Nash! Ad accompagnarli ci sono Joe Vitale alla batteria, Bob Glaub al basso, James Raymond alle tastiere e Todd Caldwell all'organo.
Il concerto si apre, nell'entusiasmo generale, con una Woodstock che rievoca non solo il noto festival, ma anche e soprattutto i bei tempi andati, quei tempi che i nostalgici come noi (?) - forse – vorrebbero (ri)vivere. Al primo richiamo, il pubblico risponde cantando e muovendosi – ognuno al proprio posto, sulla propria sedia, però. Segue una più “mite” Military Madness, direttamente dal repertorio solista del Sig. Nash, poi un rock più duro infiamma di nuovo in una sensuale Long Time Gone dall'eco blueseggiante, e ancora in Bluebird (Buffalo Springfield).

Inutile dire che i Nostri hanno ancora il pieno controllo delle loro voci, sicuramente più mature rispetto agli esordi, chiaro, ma ancora capaci d'incastrare armonie perfette e di intrecciarsi, inseguirsi, completarsi a vicenda.


Marrakesh Express, proposta in una specie di country “soft” e dalle sfumature esotiche, non basta a placare un pubblico già entusiasta che, anzi, si dimostra pronto a canticchiare la melodia orecchiabile del brano, impaziente di continuare quel viaggio di una serata. “All on board the train!”, cantiamo tutti insieme. E quel treno è un “Southbound Train” - per restare in tema – che va dritto verso la Croce del Sud. È infatti Southern Cross la tappa successiva, direttamente da Daylight again (1982).
Le chitarre vengono messe da parte per un piccolo discorso che prelude In Your Name, scritta dal mattatore della serata, ancora Graham Nash:
Sono vecchio abbastanza da rendermi conto che milioni e milioni e milioni di persone sono state uccise in nome della religione”, ci dice, tra gli applausi, prima di partire con una vera e propria preghiera, un gospel accompagnato da chitarre ed organo, ricamato dalle voci dei compagni di una vita.

Lo spirito americano aleggia sulla Cavea sul country un po' nostalgico di Long May You Run, ripescata dal disco omonimo di Stills e dello “Skinny Canadian” Neil Young, purtroppo latitante. L'intro di chitarra che segue è inequivocabile: Dejà Vu. Il pubblico è in delirio, ma subito cade il silenzio per lasciare spazio a quelle atmosfere lisergiche. So cosa stanno pensando tutti: “We have all been here before, we have all been here before”. Il brano ci viene proposto con un lungo strascico in cui – dopo il canonico assolo di chitarra – un'armonica, un organo, un piano jazzato e, a seguire, un basso rielaborano, a turno, il tema della canzone, prima di riprendere insieme per concluderla. Ovvio che a chiudere la prima parte debba essere una sognante Wooden Ships, classico del rock noto anche per la memorabile versione dei Jefferson Airplane. “We are leaving - you don't need us”. E invece abbiamo bisogno di voi, signori miei.

Il break di circa quindici minuti è fin troppo lungo, la gente va e viene con bicchieri di plastica pieni di birra ghiacciata e anche questa volta torna in ritardo per il secondo pezzo del concerto, nonostante gli avvisi “luminosi” lanciati da tecnici che, evidentemente, conoscono i loro polli.

La pausa ha ridato smalto ai tre sul palco (come se ce ne fosse bisogno) e gli spettatori, ora, sono pronti ad ascoltare col fiato sospeso, a gustare in religioso silenzio anche la seconda parte. Si ricomincia all'insegna della musica acustica, con il nonsense di Helplessly Hoping, puro gioco di parole, chitarre e armonie perfette. Ripresa più che ottima.
Si vola in alto con una delicatissima Norwegian Wood che dà inizio ad una serie di cover elaborate dal trio: c'è un'energica Midnight Rider (Allman Brothers Band), una rispettosa Girl from the North Country (Bob Dylan) che, chissà perché, mi riempie di un'improvvisa malinconia. Sembra di essere attorno ad un gigante falò sulla spiaggia quando cantiamo l'arcinota Ruby Tuesday dei Rolling Stones e, più tardi, dopo altri brani, anche Behind Blue Eyes degli Who, bistrattata dai Limp Bizkit qualche anno fa e questa sera finalmente riscattata.
Si torna al repertorio CSN – anzi, solo alla C, per ora – con What Are Their Names, brano impegnato proposto a cappella dai tre Non si sente una mosca volare, l'audience s'immobilizza e ammutolisce. L'atmosfera non cambia durante la magica Guinnevere, un gradito regalo dal duo Crosby-Nash. La platea è ormai in un'estasi silenziosa, sospesa a mezz'aria tra gli “scarabei” del Parco della Musica. L'intensità di Delta, connubio tra la potente voce di David Crosby, un piano, un organo ed una batteria, ci richiama a terra, ma ci lascia ancora a fluttuare a qualche metro dal suolo. Ed è di nuovo l'organo ad introdurre in modo inquietante il pezzo successivo, forse quello che mi ha impressionato di più in tutto il concerto: Cathedral. Evocativa, angosciante ed epica nello stesso tempo. Mi tocco inavvertitamente il braccio: ho la pelle d'oca. Brividi.

A smorzare una tensione palpabile ci pensa Our House, accolta da tutti con un certo entusiasmo. Molti non si ricordano le parole, ma il motivetto della canzone è assai difficile da dimenticare. Le luci si accendono e si spengono su un'audience ormai in piedi. “Seduti! Noi non vediamo!”, mi urla la signorina dietro di me. Stronza.

Per il finale ci sono ancora pezzi famosissimi, ancora spettatori in piedi a godersi la richiestissima Almost Cut My Hair, cantata da David Crosby, forse provato nel corpo, ma di certo non nella voce. La canzone-manifesto di una generazione ribelle ti entra sotto la pelle e ti dà un ultimo brivido prima della fine. Love the One You're With ci viene proposta in una veste di puro rock'n'roll che non fa altro che fomentare ancora di più la Cavea.

Applausi, applausi e ancora applausi quando i nostri eroi fanno per uscire, applausi che li richiamano dentro per il gran finale, quello vero. È prima il turno di un'infiammata Chicago. “We can change the world, rearrange the world”, intoniamo tutti assieme. “Ma qualcuno ci crede ancora?”, mi viene da pensare.

La serata si conclude con Teach Your Children, altro cavallo di battaglia dei CSN, intonato a gran voce da un unico grande coro che comprende proprio tutti.

Sì, insegnatelo a vostri figli, insegnateglielo bene: questa, signori, è la vera musica.

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