Nel 1974 David Bowie, chiusa l'epopea di Ziggy e licenziati gli Spiders from Mars, pubblica Diamong Dogs, disco che nelle fasi iniziali è concepito per essere la trasposizione musicale del romanzo 1984 di George Orwell: a causa del mancato permesso degli eredi l'album effettivamente realizzato alterna gli ultimi fuochi glam a ballate soul e tentazioni disco, il tutto condito dai testi post apocalittici concepiti per il musical abortito.

La trasposizione scenica del tutto è uno spettacolo in cui la parte scenica non è seconda a quella musicale: ballerini, coreografie, numeri para-circensi, scenografie che si modificano nel corso della serata, voglia di stupire a tutti i costi con una performance in cui le singole canzoni sono funzionali al contesto narrativo e non una semplice parata di successi.

Logico quindi che "David Live", registrato a Philadelphia nel luglio 1974, soffra della mancanza della parte visuale, e debba considerarsi una testimonianza incompleta di uno dei primi esempi di show multimediale, forma d'arte pop che diventerà comune almeno un decennio dopo.

Tuttavia il disco, primo live ufficiale di Bowie, è affascinante proprio perché rappresenta un episodio peculiare della sua discografia: non un greatest hits, si diceva, ma una rielaborazione in chiave funky dei brani del repertorio che meglio si prestano al trattamento, con un sound che si distingue decisamente dal rock senza orpelli di Diamond Dogs per caratterizzarsi come un anticipo del plastic soul di Young Americans.

La nuova band è composta da solisti formidabili, guidati da Michael Kamen, che diverrà celebre per gli arrangiamenti su The Wall dei Pink Floyd e per le colonne sonore di film di successo negli anni '80 e '90; il solo reduce degli Spiders from Mars è il pianista Mike Garson, che qui è libero di impreziosire i brani con echi latini o free-jazz. A svettare però sono i fiati (il sax di Richard Grando e David Sanborn e l'oboe dello stesso Kamen), che impreziosiscono (o appesantiscono, a seconda della scuola di pensiero) alcuni brani.

Anche i pezzi più rodati vengono ossessivamente rielaborati con il nuovo mood: l'esperimento riesce al meglio con una All the young dudes de-glamizzata e virata a languida ballata soul, con una versione latin-jazz di Aladdin Sane, con la tirata Panic in Detroit; fallisce (almeno ad avviso del sottoscritto) con la caricatura crooner di Jean Genie e i ridicoli orpelli su Width of a circle.

Un documento, insomma, della breve sbandata americana del futuro duca bianco, e una prova della sua attitudine a cannibalizzare i generi musicali e a farli propri con una sensibilità estetica e musicale unica.

P.S.. Stampato più volte nel corso degli anni, è stato arricchito e migliorato (nel suono e nella veste grafica) nella versione del 2005, per la quale Tony Visconti racconta di aver in parte eliminato le sovraincisioni vocali e strumentali aggiunte, al fine di dare un quadro più fedele della performance.

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