Secondo una doppia interpretazione, Lazarus fu risuscitato da Gesù prese il suo letto e andò via, oppure, prese il suo Libro (il Libro della Torah) ed andò via. Chissà se per il Duca questo duplice senso è alla base dei due inquietanti video Blackstar e Lazarus diretti dal regista Johan Renck. Nel primo, Bowie impugna come un profeta un testo “sacro”, nel secondo, è Lazarus, in un letto d’ospedale a dettare le visioni estatiche di trapasso dalla morte alla vita eterna, direttamente al Duca Bianco. Come per i grandi, Hölderlin, Michelangelo, John Coltrane, anche David Bowie ci parla simbolicamente del suo rapporto con il “sacro” e il “mistico”, come già dichiarato nel lontano 1976 in Station to Station, e qui ribadito nel giorno del suo 69 compleanno, con l’album più atteso del 2016: Blackstar. A soli tre anni di distanza da The Next Day, Bowie sorprende ancora una volta con un lavoro sperimentale e di largo respiro tra modern jazz e attitudine anti rock. L’impianto jazzistico dell’intero album è affidato ad una band da “brividio” composta da Donny McCaslin, Mark Giuliana, Tim Lefebvre, Jason Linder, il chitarrista jazz Ben Monder, e James Murphy dei LCD Soundsystem. L’impeccabile produzione è affidata a Tony Visconti, l’unico interlocutore oggi del marchio-Bowie. Ma questo ultimo del Duca: com’è? E’ un ottimo disco, completamente diverso da ogni altro album del Duca ed è suonato in modo eccellente in ogni sua parte: diventerà un classico. Come per Station to Station la durata dell’album è essenziale: 41: 13 min. Tra i sette brani spiccano: il pathos apocalittico della title track, la classe Early-Cure oriented di Lazarus, la stranezza stilistica di Girl Loves Me, in un tutt’uno con le nuove vertiginose e cinematiche versioni di ‘Tis a Pitty She Was A Whore e di Sue (Or in a Season of Crime), brani che già conoscevamo da Nothing Has Changed (un’ennesima ed inutile raccolta del 2014), ci trasportano al centro di quell’immaginario sonoro estraniante ed attraente, così come nelle più ardite opere del Duca. Ma tutto ciò che di inquietante e di palpitante si costruisce attorno all’ascolto dei primi cinque brani, si sgretola e svanisce in cambio netto di registro, più dimesso, con il classic-Bowie di Dollar Days e di I Can’t Give Everething Away, restituendo all’intero lavoro un taglio non totalmente sperimentale ed oscuro, ma nelle vicinanze, per quanto possibile, ai brani di Black Tie White Noise. La coppia Bowie/McCaslin funziona perfettamente, e porta le liriche del Duca al massimo delle sue doti espressive. Un discorso a parte meritano i testi totalmente ermetici, simbolici e spudorati (per es. in Lazarus Bowie urla “I was looking for your ass”), e che lasciamo commentare volentieri ai bowieologi accaniti. Nel frattempo Blackstar migliora ad ogni ascolto, e non importa se alla fine traspare una tristezza algida o una rabbia intellettuale esplicita: Bowie non ha bisogno di intrattenere inutilmente i suoi fan con i facili entusiasmi del pop, e, come Picasso, è un infaticabile artista che continua a regalarci i suoi dischi, sempre ispirati, come agli inizi della sua carriera che sfidano nuovi orizzonti narrativi. Accogliamo quindi con grande rispetto il 29 lavoro in studio dell’arista più odd del nostro spazio sonoro. (P.S. ovviamente Il computo degli album include Tin Machine I, Tin Machine II, Labyrinth, The Buddha of Suburbia, ed esclude Toy)

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