Guardando nello scaffale dei miei dischi che abbraccia l’universo musicale nella maniera più ampia possibile, chiunque noterebbe in ambito rock, una netta distinzione tra nomi a tatto imprescindibili ed altri che direbbero qualcosa solo a coloro i quali hanno avuto la fortuna di inalare musica attraverso le proprie orecchie. Nomi che il più delle volte hanno goduto di una notevole popolarità come Bernie Leadon (negli Eagles pre-HOTEL CALIFORNIA), Gene Clark (nei primi due importanti lavori dei The Byrds) o Mick Clarke (Killing Floor e Salt musica di gran qualità ma troppo stretti per lui). Persone che sicuramente amavano quel che sapevano fare, ma che con il tempo preferirono un mondo della musica secondo una propria visione personale al successo di massa assaggiato, degustato ma probabilmente andato indigesto. Autori ed interpreti di sonorità che si nutrivano di quelle radici che spaziavano in generi quali country, blues rock e folk, facendo della diversità dei generi un unico stile denso e multiforme trasudando passione e coraggio, premiati ancor di più prendendo le obbligatorie distanze da quel music-biz divenuto forse troppo impegnativo e da cui temevano di essere ingiustamente fagocitati.

Nominare David Knopfler in questo contesto, non appare di certo fuori luogo. Il musicista inglese insieme al fratello Mark partendo da un council flat (leggasi casa popolare) della Farrer House in Church Street, a Deptford nella zona sud-orientale della capitale inglese, ha posto le basi unitamente al commesso in un negozio di dischi e bassista John Illsley ed al drummer Dave Withers (detto Pick) ad una realtà musicale che si esibirà per la prima volta il 26 giugno del 1977 nei giardini del quartiere residenziale di Crossfield Estate come Café Racers e poi a suo modo conquistare il mondo sotto il nome di Dire Straits.

All’approssimarsi del finale del 1983 il terzogenito (anagraficamente è preceduto dal fratello Mark ma anche dalla sorella Ruth di sei anni più grande) dei Knopfler, comincia a muoversi con le proprie gambe, dando alle stampe RELEASE. Il disco contiene ben dieci brani in cui la fa da padrone un pop-rock gentile raffinato, dove anche una certa ballabilità compare qua e là, confermando una capacità di scrittura elegante e personale adatta perciò ad una fascia di pubblico molto ampia. È palese la predilezione per atmosfere che per lo più infondono tranquillità, anche per via della particolare tinta narrativa che aiutata anche dalla piacevolezza delle armonie, costituirà un tratto distintivo dell’intera carriera di David, capace di far convivere incontenibili refoli ma anche penombre inquietanti.

La dolcissima introduzione pianistica di “Soul Kissing”, ci porta dritti nel cuore di un sound dalla forte impronta narrativa, aspra, ma anche pregna di tanto romanticismo, con versi sospirati che hanno lo scopo di incitarne una naturale cantabilità. Scelto opportunamente come brano di punta, è espressione di una genetica anima dylaniana, che riassume al meglio un’intensità creativa in grado di convivere naturalmente con un coro gospel e synth mai troppo invadenti. Un sax sporco e un’accennata tribalità ritmica porta dritti a “Come to Me”, un brano dove la melodia ed una ruvida vocalità si confondono a meraviglia su di un testo a rima alternata, tirandone fuori una canzone fluida e avvolgente nello stesso tempo. Se non si è parlato di Dire Straits (pur se nel brano di apertura è John Illsley a suonare il basso) fino ad ora, è perché con “Madonna’s Daughter” ci si trova di fronte ben più che ad un semplice richiamo. Dall’introduzione (in cui flanger e chorus rendono ancor più compresse le chitarre) si passa per un inciso e un ritornello che rapiscono all’istante, anche per merito di un trascinante pulsare che ha caratterizzato l’avvolgente sound di quel MAKING MOVIES che David aveva cominciato ad incidere (sebbene una versione di “Solid Rock” da lui suonata appare nella colonna sonora del film RIDIN’ HIGH in origine stampata nel 1980) e la ritmica che fuoriesce proprio dalle riconoscibili dita del fratello Mark! Suoni che si fanno garbatamente più ballabili ed al passo con i tempi con “Roman Times” e il funky senza fronzoli di “Slideshow “, in cui la magica frase dance with me va ben oltre una semplice dichiarazione di intenti. La veste del cantautore si fa straordinariamente calzante nell’emozionante “The Girl and the Paperboy” che nell’oscuro incedere forse anche troppo di “Little Brother”, si dimostra perfetta come sottofondo in un lounge bar. Sulla stessa lunghezza d’onda è “Hey Henry” adatta a suggellare paesaggi urbani color pastello (la serie di telefilm Miami Vice approderà sul piccolo schermo a fine estate del 1984), mentre la fremente “Night Train” farà ancor di più con delizioso e discendente ritornello lasciando la chiusura del disco alla ninnananna “The Great Divide”, incisa come prima traccia ai Matrix Studios di Londra nel 1981.

E se tra gli anni spesi tra la Gosforth Grammar School di Newcastle upon Tyne e quelli al Bristol Polytechnic, la dedizione all’approccio strumentale è stato manifestato in maniera molto forte (chitarra, piano e batteria), ha comunque consentito a David Knopfler di avvalersi di musicisti di ampio spessore come Arran Ahmun drums (già con Andy Fairweaher Low e poi con Andy Summers, Gerry Rafferty), Betsy Cook al Piano Synthesizers e Backing Vocals (con trascorse esperienze al seguito di Bonnie Tyler, Sally Oldfield, Paul Brady) e Pino Palladino: bass (al servizio di Gary Numan, Paul Young poi Richard Wright, Elton John eClapton, unendosi ai The Who nel terzo millennio).

Circa 40 minuti di musica semplice che ha potuto propendere – con consapevolezza per chi scrive, - per il massimo dei voti magari per un leggero arrotondamento in eccesso, senza mai dimenticare però, che il fascino di certi lavori vada ben oltre l’arduo compito di cambiare la storia della musica ed il rischio di far parte ingiustamente di quella che in molti reputano come una discografia minore che mi permetto di definire onesta e sincera come in questo caso.

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