"I'm dying." - "Is it blissful ?" "It's like a dream." "I want to dream."
Il sole splende sopra San Francisco. Alzate lo sguardo verso il cielo e chiudete gli occhi. Rilassatevi e liberate la mente, le palpebre socchiuse tingeranno la vostra visione di un color tendente al rosa più intenso, in un gioco di contrasti con i raggi luminosi. Fermatevi con la vostra auto lungo il ciglio di una strada costeggiata da villette, giardini e persone benestanti. Siete così nelle vesti di Kerry McCoy e lavorando con la fantasia costruite le linee per un filo conduttore che possa idealmente seguire le vostre future composizioni. Questo è "Sunbather". Questi sono i Deafheaven. Dopo il folgorante full length di debutto “Roads To Judah” è giunta l’ora di assaporare il nuovo album di uno dei gruppi più chiacchierati e stimati all’interno del panorama alternative. Le aspettative sono alte e, fugando ogni dubbio fin da subito, sono state ampiamente ripagate. Il duo McCoy (chitarre) - Clarke (voce, testi) si è avvalso della collaborazione di Daniel Tracy alla batteria e ha rinnovato quella con Jack Shirley alla produzione.
Il lavoro architettato è monumentale. Viene creato con estrema raffinatezza e meticolosità un sogno nella quale immergersi completamente, per poter cogliere tutte le sfumature elaborate. Si è trascinati nel loro mondo, nella loro visione musicale e non se ne esce, si rimane affascinati e intrappolati in una morsa che avvolge e trafigge in ogni singolo istante. Nel viaggio in cui si è trasportati c’è un continuo amalgamarsi di sentimenti avversi che passano dalla veemenza più aggressiva, nera come la pece, alla speranza più radiante, vicina alla luce di un nuovo giorno. Si può dire con tranquillità che George Clarke sia il lato oscuro dei Deafheaven; grazie a uno screaming assordante, straziante ci risveglia dalle melodie disegnate da McCoy. Quest'ultimo invece si cala completamente, in opposizione al suo sparring partner, nel lato armonioso e romantico del combo. E’ dunque un fluire ininterrotto di anime camaleontiche che si tessono lentamente e visceralmente all’interno di un quadro più ampio. Contrasti che s’attraggono reciprocamente : la beatitudine e la malinconia, la paura e la pace, la serenità e il dramma, il tutto fino alla conclusione del tragitto.
Le linee vocali stridenti e angoscianti incontrano il supporto nei pattern di Daniel Tracy che dietro alle pelli coordina con grande abilità e versatilità le diverse dimensioni sonore che si creano man mano. Delicato nei momenti più profondi, travolgente negli assalti blast beat. Ma l’asso nella manica dei Deafheaven è l’estrema elasticità mentale in materia musicale che viene trasmessa completamente all’interno di “Sunbather” e di cui McCoy se ne rende principale artefice. Il black metal è destrutturato e finisce per essere una delle tante sfere d’influenza dalla quale giunge l’ispirazione. Sonorità squisitamente post-rock (non a caso hanno coverizzato i Mogwai) incontrano lo screamo furioso, mentre gli arpeggi acustici cercano e trovano un perfetto stato di stasi con frangenti dai rimandi noise. Un’armonia che si rompe con l’inerzia di escalation apocalittiche, prima che si possa tornare ad abbandonarsi dolcemente ai tocchi di un pianoforte o al riapparire dei sempre presenti echi shoegaze. La violenza ne risulta così levigata e solo le urla liberatorie di McCoy riescono a farla esplodere.
L’orologio si ferma poco sotto l’ora e il “trip” creato dalle quattro perle incastonate fra tre interludi (tra i quali ci si aspetta la comparsa di E.Menuck o M.Gira), citazioni di Kundera e quant’altro, giunge al termine. Si riapre gli occhi e si ha la sensazione d’aver ascoltato uno dei picchi più alti del 2013. “Roads To Judah” apriva una strada, “Sunbather” la amplia e mostra dei Deafheaven in grado di arrivare ad una maturazione artistica ancor più alta. Pink is the new black.
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