"Partire dagli elementi più strani e diversi, e poi trovare sempre la 'struttura pop' in cui racchiudere il tutto".

Questo, nelle parole di un burtoniano Stef Kamil Carlens, il talento maggiore di Tom Barman.
Un talento di cui fa sfoggio dall'ormai lontano 1994 (anno del folgorante debutto di "Worst Case Scenario"), e da cui dopo il 1999 (anno dell'ultimo, incantevole mosaico, "The Ideal Crash") aveva deviato a favore di altre derive artistiche.
Ora i dEUS tornano, e ha buon gioco Tom Barman a dire che questo non è il suo 'progetto solista', fatto sta che - eccezion fatta per il fido, fondamentale Klaas Janzoons al violino - il tirannico leader cambia per l'ennesima volta i musicisti attorno a sé. Via Ward (malattia), via Mommens (ehm... disaccordi, diciamo), via De Borgher (chi lo sa?), ecco Mauro Pawlowski alla chitarra, Alan Gevaert al basso e Stéphane Misseghers alla batteria.

Sei anni dopo, il disco del ritorno ci dice che quel talento per la 'pop struktuur' non è svanito. Affatto. Perché i dEUS continuano ad essere inclassificabili ma anche estremamente godibili.

"Pocket Revolution" però non è il lavoro migliore del quintetto belga, e se questo, in tutta sincerità, ce lo potevamo aspettare, rimane da capire cosa manca.
Posto che Bad Timing è un inizio sensazionale, con un costante crescendo di graffi sonori che ti risucchia dentro l'album.
Posto che con le poche ma mirate addizioni elettroniche dell''amico Magnus' CJ Bolland (7 Days, 7 Weeks e Stop-Start Nature) il dEUS-sound continua a evolversi.
Posto che i tanto minacciati pezzi up-tempo (If You Don't Get What You Want, Nightshopping e Cold Sun Of Circumstance) hanno un ingrediente raro nel rock'n'roll odierno - la classe.
Posto che la poesia subdola e struggente del Barman romantico si arricchisce di un maturo sapore notturno (Include Me Out, The Real Sugar, Nothing Really Ends).
Posto che la title-track, spy story dal respiro prima inquietante poi incredibilmente coinvolgente, costituisce la 'solita' inconsuetudine spiazzante.
Posto che la cale-iana Sun Ra è di una bellezza tanto confusa quanto contundente, ai vertici della loro produzione.
Posto che il già citato Stef presta pochi grammi della sua voce - bastano e avanzano - nelle due tracce appena citate.

Posto tutto ciò, e che la macchia della sintetica e banalotta What We Talk About incide poco sulla qualità complessiva dell'album, cosa manca?
Forse: uno sparring partner, una spalla all'altezza.
Il genio jazz-blues schizzato di Carlens prima, e l'inquietudine noise sopita di Craig Ward poi, erano stati capaci di equilibrare, contrastandolo, il visionario Tommasino. Pawlowski è un grandissimo rocker, folle da par suo, e assicura un impatto live anche maggiore dei predecessori; ma sul disco non riesce a screziare l'istrionico ego del Barman 33enne appena risorto (anche perché, va detto, buona parte dell'album era stata concepita con la vecchia line-up), cosicché il disco appare più centrato sulla sistematizzazione degli infiniti spunti del leader che (de)centrato sulla squisita invenzione.

"Non sono un tiranno... I'm just the guy who has the vision", dice Tom Barman.
Dice anche: "Non sono un creatore, sono solo un assemblatore".

Comunque: lunga vita a Tom, ai dEUS e ad Anversa tutta.

[Per gli spunti e i contributi, la recensione andrebbe ascritta anche a trellheim e lukin, ma sono dei timidoni...]

Carico i commenti... con calma