For God’s sake, burn it down!


Oggi vi voglio raccontare una storia particolare. Una storia che prende parte, e come potrebbe essere altrimenti, in quell’Inghilterra che dai ’70 si affacciava verso gli anni ’80. L’avventura di un gruppo di ragazzoni innamorati della musica, che un giorno erano una squinternata compagnia capitanata da uno strambo don Chisciotte, e quello dopo acclamate star nazionali.
Kevin Rowland, il nostro “Joe Strummer in salsa Stax”, aveva una concezione particolare del rock: una volta dato tutto al punk, cuore e anima quando la moda erano Vicious&Rotten, era stato altrettanto veloce a capire la truffa che c’era sotto, quindi girare i tacchi e andarsene a malincuore. Il passo successivo, dopo una dieta a base di stimolanti, classici Stax/Motown e Northern Soul, era stato l’arruolamento di spiriti elettivamente affini e la nascita dei Dexys Midnight Runners. Nella sua visione c’erano lotta di classe, allenamenti collettivi, e soprattutto un ensemble senza chitarre, trainato dalla fiera e debordante potenza dei fiati a cui si affidava il compito di sorreggere gli arrangiamenti. Nel 1980 i Dexys lanciarono "Searching for...", un'opera di imponente e quadrata potenza fisica, strutturata fin dal titolo sulla ricerca di una terza via tra post punk e 2-tone allora tanto in voga. Vicini al folk infernale dei Pogues tanto quanto agli eterei svolazzi dei Waterboys, la loro musica aggrediva l'ascoltatore e finanche loro stessi, non lasciando respiro e nemmeno una goccia di sudore sprecata. Quell’album resta una gemma di quella breve e intensissima stagione, di cui Geno rappresenta in qualche modo l’epitome.

Ma qui succede il crac.

L’improvviso e inaspettato successo sorprese forse Rowland, che d’altra parte fino a poco tempo prima si trovava a spiluccare fra oscuri singoli da 4 pence nei mercatini di Birmingham. Le dichiarazioni alla stampa si facevano sempre più confuse e paranoiche, il leader ogni giorno più dispotico, la pochezza di idee era preoccupante. In breve, Rowland si trovò solo. Quante somiglianze troviamo con la storia degli Scritti Politti? Come se Gartside e Rowland fossero due facce della stessa moneta.


L’anno sabbatico però giovò al nostro eroico frontman. Il marzo 1982 vede i nostri tornare in gran spolvero sulle scene, in ossequio ai critici che troppo in fretta li avevano dati per bolliti. Tutt’altro: preceduti dalla programmatica e tiratissima cantilena The Celtic Soul Brothers, sfoderavano ora nuove vesti e un’inedita formazione tirata a lucido. Abdicavano all’improvviso agli imperiosi muscoli dei fiati per riscoprirsi decisamente più elastici nel sound, con un insolito afflato funk/jazz che inebriava le esecuzioni. Anche grazie – ma non solo – alla cortesia degli Emerald Express Fiddlers che ornavano con mandolini e violini tzigani qua e là un po’ tutto il disco. Il punto di riferimento, noblesse oblige, erano ovviamente “Into the Music” e la Rolling Thunder Revue dylaniana, con le loro (in)disciplinate scorribande acustiche: e per riannodare i fili col passato bastavano pochi solchi, la versione di Jackie Wilson Said, qui ancora più arrembante che l’originale, stampava a chiare lettere chi erano i numi tutelari di Kevin Rowland. In fondo, niente era cambiato.

L’energia, la vitalità, l’estrema intensità che i nostri utilizzavano per declinare i loro pezzi erano rimaste intatte, anche se un pezzo come Old i Dexys un paio d’anni prima non l’avrebbero suonato neanche sotto tortura. Gli arrangiamenti, la musica, lo spirito, erano gioiosamente pop: con tante grazie a Colin Fairley che in produzione aveva avuto la felice idea di mettere costantemente in primo piano l’incessante sezione ritmica Kilkenny/Shelton. Non solo un semplice cambio d’abito da copertina dunque (da Mean Streets a una versione aggiornata degli hobo di strada), ma un profondo rimodernamento dello stile sulle basi già gettate. Pure i testi, che invariabilmente indagavano sulla dicotomia mente/corpo coniugati verso l’irraggiungibile purezza (ancora Gartside, sarà un caso?) erano un marchio di fabbrica ormai collaudato. Il New Caledonian Soul era ora lo stile per delle saturday night stars che si esibivano sotto una luce diversa, in certi momenti più cattiva, senz’altro più appassionante e seducente. Capita poi che proprio nel mezzo del migliore degli iterplay in tempo medio – Until I Believe in My Soul, ballata stracciamutande sull’autopunimento della carne, tanto per cambiare – i nostri piazzino un dixieland da saltare sulla sedia ed esclamare: ehi! Allora il nostro cuoricino che aveva fatto felici balzelli fino a quel momento si ferma un attimo, e solo per un attimo restiamo basiti. Poi, non si può far altro che alzarsi e applaudire, sapendo che il sipario calerà tra poco. La chiusura Come On Eileen – ancora, violini, mandolini, fisarmoniche, flauti, per una festa che sembra non dover finire mai – resta il sigillo di un disco intensissimo e irripetibile non solo dai Dexys, ma da chiunque: la pietra d’angolo che ha consegnato questo collettivo a una piccola particina di storia, quella a cui Rowland anelava da quei primi giorni di Birmingham.


Il sogno di Kevin Rowland, nonostante fosse ben piantato negli anni ’80 (e nonostante lui lo rinnegasse), nacque e morì nei ‘70: troppo legato a molte di quelle idee, questo genio dei poveri rimase impigliato in molti stereotipi tipici anche dello stesso movimento post punk, che rifiutava qualsiasi cosa non fosse “avanti” (leggi: la «stampa hippie»). In questo senso, “Too-Rye-Ay” resta un colpo di coda, più che una rinascita. Ma questo lo avremmo saputo solo con gli anni, e dopo che l’album successivo – il bizzarro “Don’t Stand Me Down” si sarebbe rivelato un sonoro tonfo. Pure la varia letteratura successiva, che nel bene e nel male riprendeva tutte le compagini coinvolte in quel periodo, avrebbe contribuito a delineare confini più precisi, e ad annoverare i Dexys Midnight Runners come una delle poche davvero sfavillanti stelle cadenti in quel tappeto blu di San Lorenzo che ospitò la musica migliore di quegli anni.

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