Talvolta mi sembra che la vita non sia altro che routine intramezzata da una serie pressoché infinita di date. Date nelle quali siamo soliti riporre un numero crescente di inebrianti aspettative; è triste ma sovente il futuro assume le fattezze di un mero miraggio. Se lo vediamo da lontano ci pare una visione appagante che, man mano che ci avviciniamo, si trasforma scivolandoci tra le dita come acqua portata alla bocca da una manuta incautamente aperta. Ancora assetati non troviamo niente di meglio che scrutare l’orizzonte lontano alla ricerca di una nuova visione appagante sulla quale poter riporre le nostre nuove fantasie pregne di rinnovata ed energica speranza, incuranti delle meraviglie del presente che passano come i paesaggi dal finestrino di un treno. Un continuo loop per uno stupido criceto che persevera a correre all’interno della ruota, convinto che aumentando il ritmo riuscirà prima o poi ad uscire. Questo week end nella mia città si sono toccate punte di 36-37 gradi centigradi. Innocue nuvole scolpite ed un sole abbagliante hanno fatto da contorno ad una marea di progetti per il week end da parte di amici e conoscenti. Oggi (sabato) piove, quei pomeriggi lunghi e caldi con luce fino alle 22 di sera se ne sono andati e sono certo che quelle stesse persone si lamenteranno del meteo ostile profondamente ingiusto nel fine settimana dimenticando che dopo lavoro avrebbero potuto passare ore splendide e rigeneranti. Ma tanto l’estate è appena nata: ci rifaremo alla grande, mi diranno, sfregandosi pure le mani al solo inebriante pensiero.

Non ho letto altri libri di Buzzati, ma la malinconica bellezza, il messaggio filosofico per nulla appagante, la descrizione surreale delle atmosfere così ben descritte (capaci di trovare fin troppo concreto riscontro nella quotidianità) è sorprendente e credo che uno di questi giorni andrò in biblioteca allo scaffale con la lettera B.

Il tenente Drogo non è affatto convinto nel suo tragitto a cavallo che lo porterà infine alla Fortezza Bastiani: lasciare la città per un posto così sperduto ed austero in difesa di un apparentemente inutile confine non lo attira. Ma il ragazzo, il sostantivo che precede questo stinto inciso lo dimostra, ha l’età dalla sua parte e prende questo breve periodo come un amaro sorso da dover buttare giù, come una medicina necessaria dal sapore indigesto. Ma cosa sono una manciata di ore nei confronti di un’intera vita? E se queste ore anche si dovessero tramutare in sparuti mesi, quattro, la prospettiva non cambierebbe poi di molto. Si trova così a presiedere quel confine, imparare le parole d’ordine severamente osservate nei turni di guardia e scrutare quell’orizzonte sempre uguale. La vita spesso segue questi binari. Si intraprende un lavoro che non piace, si fa qualcosa di malavoglia; con gli amici si afferma che è solo una questione temporanea, ma per quanto sembri impossibile in molti di quei casi spuntano i capelli bianchi e non ci si è mai mossi.

Il tempo, quel figlio di puttana che in maniera ridicola abbiamo cercato di intrappolare prima in clessidre, meridiane, orologi e vattelapesca, non ha fretta ed ha la capacità innata di mimetizzarsi tra le grigie pieghe di giornate troppo simili tra di loro. Si vive quindi nell’attesa del cambiamento imminente: la felicità è sempre dietro il prossimo tornante, peccato che spesso finisca prima la benzina.

Drogo comincia a captare quei segnali di invisibile pericolo che i graduati più anziani, ormai asciugati di speranza e ciononostante condannati a rimanere nella fortezza essendo giunti al tramonto della loro vita, gli avevano lanciato invitandolo a andare via al più presto, lontano da quello sperduto ed inutile eremo. E’ un libro molto acuto. Domani, domani ancora domani per procrastinare all’infinito: è così che molte esistenze dalle potenzialità infinite vengono racchiuse in una manciata ridicola di ambienti, orari ed attività fin troppo definite e prevedibili. Quello di Buzzati è un grido contro la standardizzazione di pensiero, azione e di vivere. E’ una potente invettiva contro il tempo, ma a ben pensarci l'oggetto della sua critica non è tanto la misura temporale, ma l'uso scriteriato che ne facciamo. Quella del Deserto dei Tartari di Buzzati è una sorta di carpe diem che calza a pennello ancora a distanza di 70 anni dalla sua pubblicazione nella società dei social network e della ricerca della più ampia condivisione altrui a discapito dell‘iniziativa personale e del perseguimento dei nostri desideri, sovente repressi ed intentati fino alla tomba.

E’ un libro che ci invita a calpestare terreni diversi per non dover rimpiangere una vita piatta che in punto di morte ci apparirà altrimenti come il fumoso e sfuocato orizzonte del versante nord della fortezza Bastiani. I Tartari non verranno più, oppure beffardemente arriveranno quando saremo ormai troppo vecchi per alzarci e combatterli. E così il capitano Drogo, ormai prossimo alla morte, viene elegantemente mandato via a calci in culo dalla fortezza finalmente in stato di guerra. E' tremenda e sublime la descrizione di queste avvizzite labbra che cercano inutilmente di bere. Drogo per l'ultima volta vede il liquido che ha rincorso per una vita scorrere beffardo via dalle dita, chiude gli occhi perché sa che non ci saranno più occasioni per lui e pensa a come abbia potuto sprecare tutte queste decadi in modo così assurdo. E non può trovare una risposta soddisfacente che lenisca il rimpianto, perché molto semplicemente non esiste. 

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