45 anni e non dimostrarli affatto. Il film più celebre di Dino Risi continua giustamente a essere annoverato tra i lavori più significativi e influenti nella storia del nostro cinema. Convenzionalmente gli si ascrive anzitutto il merito di aver rappresentato l'affresco più mirabile dell'Italia del boom economico, in cui il consueto teatrino borghese e bigotto viene trasfigurato dai miraggi dello sfarzo, proiettandolo ben oltre gli stilemi della commedia all'italiana.

La storia è quella del cialtrone romano Bruno, fallito quarantenne a bordo di una Lancia Aurelia, e del viaggio iniziatico che fa intraprendere al timido studente Roberto. Un apprendistato sociale di appena ventiquattro ore, che si snoda attraverso i simulacri dell' Italia godereccia e impazzita dei primi anni 60 (la corsa all'oro nelle strade vacanziere, le feste e gli yacht, ma anche spaccati più torbidi, come il porto di Civitavecchia). Il rapporto tra i due personaggi, magistralmente interpretati da Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant, nella loro endemica contrapposizione, nel tormentato e ambiguo fascino provato da Roberto per Bruno è certamente lo snodo narrativo focale. Roberto vede nel picaresco Bruno, inconcludente sia negli affetti che nell'attività professionale ma abile incantatore di serpenti, non solo il tramite per entrare in quella comunità adulta da cui si era forse sempre sentito escluso, ma probabilmente anche un Caronte che lo aiuti a raggiungere la propria parte oscura, fino ad allora rimossa. Un'avventura vissuta al cardiopalma, che esplora lidi sconosciuti nei cuori dei protagonisti, per schiantarsi inevitabilmente in uno strapiombo sulla litoranea. Già il primo incontro tra i due del resto evoca foschi presagi, nella Roma afosa e surreale di Ferragosto.
Tutto funziona alla perfezione nel "Sorpasso".

La sceneggiatura è sontuosa e articolata, rendendo in giusta prospettiva la profondità dei personaggi (l'intenso io-pensante di Roberto contrapposto alle smargiasse e incalzanti battute di Bruno), la fotografia di Alfio Contini è spettacolarmente ricercata e il tocco di Risi in regia cuce con maestria il tutto, con l'ausilio in particolare di innovativi stacchi e piani-sequenza.
Ma il lascito principale del film va certamente oltre la pur notevole palma di archetipo dei road-movies (si pensi soltanto all'influenza su "Easy Rider"). "Il sorpasso", con la sua idea di velocità come morale e paradigma, inaugura una vertiginosa idea di modernità: la nostra visione della realtà - di quella che negli stessi anni l'economista Galbraith definisce "La società opulenta" - non può che essere ormai quella di individui che guardano il mondo da una spider lanciata a folle velocità . E il cinema si adegua. La frenesia di un film che accelera le coordinate spazio-temporali è un'arte che inizia a diventare fondamentale perché influisce sugli sviluppi dell'uomo contemporaneo, sul suo modo di pensare.

Risi in tal senso anticipa di qualche anno una delle teoria cardine del monumentale saggio di Marshall McLuhan "Il villaggio globale" - il cinema come dilatazione del nostro sistema nervoso - e di fatto si pone come un basilare precursore, oltre che un indubbio maestro.

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