Chi l’ha amato. Chi l’ha odiato. Chi non l’ha capito. Chi l’ha scoperto dopo e chi deve ancora scoprirlo.
Il Nu Metal è un sottogenere, quasi una sottocultura, tanto strano quanto affascinante e io posso dire di averlo visto nascere, evolvere, morire e reincarnarsi. La risurrezione non la nominerei, toccherebbe andare a scomodare il sacro e non è il caso.
Dopo la morte di Kurt, l’onda alta del grunge si è ridotta a schiuma da bagnasciuga, l’alternative è diventato prevedibile ed è qui che è nato tutto. È qui che la corrente si è insinuata.
Korn e Deftones, i padri. E poi Slipknot, Drowning Pool, Linkin Park, Limp Bizkit, Papa Roach, System of a Down, per dirne altri ma non tutti. Il rapping, la new wave, l’hardcore punk. Chitarre a sette corde, palm muting a profusione, i sintetizzatori e i batteristi poliritmici. C’era (e c’è ancora) tutto questo. C’era anche la benedizione di Ozzy, che voleva il nu metal per sé alla sua festa.
Io più di vent’anni fa ci sono cascato con tutte le scarpe. Ero nel periodo del grande primo amore finito, del fallimento della migliore amicizia per colpa di una donna, il tutto sostituito da relazioni tappabuco e frequentazioni carro attrezzi. Eravamo pieni di ormoni vogliosi di rivincita, incazzati per quello che c’era stato e volevamo continuasse e per come andava il mondo, che dovevamo cambiare a modo nostro (per questo c’era anche i RATM, più incazzati di noi). Ci insaccavamo le dita al campetto con la Spalding scolorita, facevamo minirisse sotto canestro perché a vederci era venuta la tipa che ci piaceva (e piaceva anche all’avversario). Compravamo roba alla Fast and Furious per la nostra prima macchina a rate, che costava molto di più della macchina a rate stessa.
Insomma, ci serviva quella roba. Ci serviva il nu metal. Ci servivano le urla incazzate di Chester Bennington, intervallate dal rapping di Mike Shinoda. Adoravamo il ciuffo di Coby “Dick” Shaddix, che urlava dentro la lente fish-eye della telecamera, invocando l’Ultima Spiaggia. Indossavamo il New Era rosso al contrario, come quel pazzo di Fred Durst, che saltava sul palco facendo il gesto del volante (ci era piaciuto molto meno a Woodstock ’99, quando aveva fatto crowd surfing con una lamiera sotto i piedi. Ma è un’altra storia). Ci piaceva quell’armeno con i suoi vocalizzi pazzeschi (“La la la lalalaaaa”) che abbiamo provato ad imitare. Ci piacevano le maschere stile Hellraiser e film horror degli Slipknot e il gilet smanicato di Sully Erna, il tizio di Boston che sembrava appena uscito da sotto la macchina dopo aver provato il primo cambio dell’olio della sua vita.
E ci piaceva un casino David Draiman, con quello sguardo aggressivo, gli orecchini a mezzaluna che pendevano dal mento, la lunga giacca nera tipo Matrix e il ciondolo con pentacolo, mezzaluna e croce cristiana. Con la sua voce rauca che ricorda un blando demone, i ruggiti gutturali tipo scimmia idrofoba e la melodia pazzesca in antitesi, che sembra volerci ricordare che dopo la rabbia, comunque, arriva la tranquillità. I Disturbed sono stati (e sono) parte di tutto questo, soprattutto all’inizio del loro percorso e con il primo album “The Sickness”. C’era proprio tutto quello che ho elencato sopra, anche il rapping, che oggi è solamente un ricordo da ricorrenza ventennale.
Mi facevano (e ancora mi fanno) impazzire i quattro di Chicago. Il loro stile, la loro mascotte, “The Guy”, che è innegabile sia sfacciatamente ispirata a Eddie dei Maiden ma ha comunque un carattere tutto suo. Ogni copertina è un piccolo capolavoro di artwork e ogni disco è una storia a sé ma sempre con grinta e carattere. Seppur con qualche evidente difetto.
È da poco uscito l’ottavo album e per il sottoscritto è puro godimento. È una boccata d’aria di montagna dopo una mezza intossicazione da marmitta durante l’ora di punta. Avete presente quando la band con la quale siete cresciuti imbocca un sentiero umido e buio, che apparentemente non porta da nessuna parte? Sensazione davvero brutta. Era successo qualche anno fa, dopo la pubblicazione di Immortalized ed Evolution.
È vero, Evolution ci ha portato la pluripremiata cover di “The Sound of Silence”, con addirittura il duetto con Myles Kennedy a rendere tutto ancora più clamoroso e accessibile anche agli ascoltatori di presunte radio rock, che non sapevano neppure chi fossero Simon and Garfunkel. Ma la delusione aveva comunque messo le radici.
“Divisive” ha riportato la luce sul sentiero, ha tolto l’umidità e ci ha rimesso in carreggiata. La copertina mi aveva già gasato, la durata del disco un po’ meno ma sappiamo che conta la sostanza.
“Hey you”, primo singolo estratto, aveva già lasciato intendere qualcosa, anche se due orecchie navigate che arrivano dagli anni novanta (passando per gli ottanta), sanno benissimo che i singoli di lancio servono alle Major come un’esca profumata su un amo molto appuntito. Ma siamo negli anni Venti del nuovo millennio e le cose sono evidentemente cambiate. Il disco scorre che è una meraviglia, Dave Draiman è incazzato come vent’anni fa, graffia e accarezza come allora ma con la maturità vocale di un quasi cinquantenne, per niente disturbato ed evidentemente nato per questo mestiere. Dan Donegan piega le corde come un forsennato, John Moyer innalza il suo basso e Mike Wengren rispolvera il doppio pedale e diventa l’assoluto protagonista di ogni pezzo.
Nei commenti sotto il primo video pubblicato (quello di “Hey You”), Draiman ha scritto:
“It’s a wake up call. We’ve become our own worst enemies. Civil discourse has become the exception instead of the norm. People have lost themselves in outrage addiction”
Questo è il filo conduttore dell’album, la condanna ai mali dell’umanità e alla sua tendenza all’autodistruzione. Un tema che ha caratterizzato tutti i lavori dei Disturbed, fatti di messaggi di pace, seppur diffusi con episodi energici e musicalmente aggressivi. Riepiloga e ribadisce il concetto la quinta traccia “Love to Hate”, eloquente già nel titolo e significativa nel ritornello:
“Why do we love to hate?
Such depravity in humanity is common
Why do we love to hate?
This insanity, now embedded in our hearts”
Le tracce più potenti, oltre la sopracitata “Hey You”, sono “Bad Man”, “Unstoppable” (secondo singolo estratto) e la closing “Won’t back down”, che riportano al metallo delle origini. “Part of Me” è il pezzo speed metal, che sul ritornello fa riecheggiare il caratteristico ruggito diabolico di Draiman, che personalmente adoro.
In “Feeding the Fire” torna lo spettro del loop, che era (poca) gioia e (molto) dolore nei pezzi che in passato hanno piegato verso il basso la parabola della band. Ma l’inquinamento del grande lavoro che è stato fatto è tutto sommato blando. La titletrack “Divisive” è il classico pezzo alla Disturbed, che sa inevitabilmente di già sentito. Ma quanto è bello ritrovare cose belle.
Ho amato “Don’t Tell Me”, ballata eseguita con la collaborazione di Ann Wilson, polistrumentista e voce degli Heart. A tratti da brividi ma senza perdere tono grazie ai riff di Donegan tra i duetti.
Avrei dato una stella in meno a questo “Divisive”, per il loop di cui ho parlato prima (limitato a una canzone) e per i soli trentasette minuti di musica. Ma se la prima cosa è trascurabile, la seconda può essere tranquillamente vista positivamente: meglio la qualità della quantità, soprattutto se ci fa capire che ciò che è stato fatto in vent’anni, non si è perso senza mai più tornare.
Lunga vita a band come i Disturbed, che, insieme ad altre e senza troppi giri di parole, ci hanno tenuto a galla quando sembrava tutto perduto.
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