Mettiamo subito in chiaro una cosa: "A Dramatic Turn Of Events" rappresenta, nella comunità metal, un album storico: è il primo senza la presenza di Mike Portnoy, padre-padrone del Teatro del Sogno ancora prima che esso aprisse i battenti nel lontano 1989.
A volte si parla di frecciatine rivolte agli ex componenti di un gruppo: velenosi morsi inflitti dalla band in questione alla pecora nera che è stata (o si è) allontanata dall'ovile. In questo caso, invece, al posto di un dardo di freccia possiamo tranquillamente parlare di una bordata di cannone. Basti guardare la copertina del disco in esame: un pagliaccio, che sta facendo l'esibizionista al massimo dei livelli (nel cielo, su di una corda infinita), pronto a cadere nel vuoto e a prendersi una bella botta (la corda si sta rompendo), mentre i Dream Theater (il logo sull'aereo) continuano a girare il mondo, continuando come se nulla fosse a fare il loro lavoro. Il significato è chiaro, diretto e preciso. In una parola? Sferzante.
Portnoy ormai era diventato un un peso grosso (e non solo metaforicamente parlando) nell'economia musicale del gruppo: decideva cosa suonare, decideva cosa cantare (?), aveva trasformato la sua creatura in una cover band (i gruppi da cui i D.T. "attingevano" negli ultimi anni erano decisi dal buon Iron Mike). Praticamente, in poche parole, la regola era "Io comando, voi ubbidite". Per i molti fan, già scoraggiati dai dischi precedenti, si paventava la chiusura del sipario sulla band newyorkese. Ma, come diceva Thomas Mann, le avversità possono essere delle formidabili occasioni. Mai parole più azzeccate.
Ora mettiamo in chiaro un'altra cosa: "A Dramatic Turn Of Events" è il miglior disco scritto dai Dream Theater da molti (e molti) anni a questa parte. I difetti che si riscontravano nelle ultime uscite discografiche sono stati rimossi del tutto? No, ma qui si può parlare di piccole sbavature, errori dell'artista dovuti più a una mano frettolosa rispetto ai clamorosi sbagli di prospettiva avvenuti in passato, che nella globalità dell'opera non ne intaccano troppo la qualità.
Dimenticate i troppi "richiami" (per non dire qualcos'altro) ad altre band contenuti in "Octavarium" e "Systematic Chaos". Scordatevi le canzoni formate da riff e stralci musicali incollati, nel vero senso della parola, l'uno dentro l'altro nello stesso pezzo senza un vero senso armonico, come succedeva in "Black Clouds and the Silver Linings", che lasciavano i brani come un puzzle finito in cui i tasselli erano stati uniti a caso dalla mano di un creatore troppo svogliato.
Il primo antipasto del disco, "On the Back of Angels", era un gustoso stuzzichino, ma lasciava in bocca uno strano retrogusto dovuto a un James LaBrie quasi svogliato in fase canora. Una volta finito di ascoltare il disco, ci si rende conto che la prima impressione è spesso la più veritiera: uno stuzzichino; ma la portata principale è di ben altro spessore.
LaBrie, finalmente libero di cantare brani più melodici e adattati alla sua voce, offre una prestazione come non la si sentiva da anni. Sentitelo su "Beneth the Surface", gemma conclusiva di questa collana di canzoni, che si appresta a sostituire "The Spirit Carries On" come ballata nei live del gruppo.
Quello che si riscontra principalmente nel disco è una struttura più snella delle canzoni, dove le famosi progressioni strumentali tanto amate (e odiate) vengono ridotte in maniera consistente. E questo non fa altro che rendere il tutto meno pesante, rispetto a quello che avveniva in passato. Tutti i brani, anche quelli più con sonorità più dure, mantengono uno stile melodico ben preciso, "arioso", dove i ritornelli cantati da LaBrie riescono ad andare a bersaglio con facilità. Sentire per credere gli squarci di melodia di "Outcry" e "Build Me Up, Break Me Down". Parlando dei singoli componenti, si nota la presenza di Myung, come non avveniva (quasi) mai in passato. Jordan Ruddess merita una menzione particolare. Evidentemente la lezione di Steven Wilson l'ha imparata, almeno in parte. Convocato dal folletto ipercreativo inglese durante la realizzazione del suo primo disco solista ("Insurgentes"), ha stupito il pelato tastierista chiedendogli di suonare in un determinato modo. Cioè? Ovvero con poche note, che diano una marcia in più alle canzoni e non le affossino con pesanti barocchismi, spesso inutili. Jordan, nel disco, si affida molto a suoni ora sinfonici, che rendono appunto il tutto più melodico e di facile assimilazione, ora a parti pianistiche di grande effetto, come nel caso dell'assolo del singolo del disco, oppure in "Far from Heaven". Splendidi i suoi interventi in "This is life", altra perla del disco, e nella già citata "Beneth the Surface", dove le emozioni raggiungono massimi livelli nell'incrocio tra la voce, la dolce chitarra, le tastiere e un crescendo d'archi da nodo in gola.
Già, la chitarra. E Petrucci, dirà qualcuno? Il buon John dimostra quello che già si sapeva: di essere un ottimo chitarrista, dove questa volta il gusto viene preferito alla tecnica. Notevole il suo tocco in "This is Life, così come in "Breaking All Illusions", già amata e venerata dai seguaci del quintetto. Mangini, invece, offre una prestazione quasi timida, ma si sapeva: quando si sale su di un palco così importante per la prima volta, è normale che le gambe tremino un pochetto.
In definitiva ci troviamo di fronte a un ottimo disco. Viene da chiedersi cosa sarebbe uscito se si fossero presi più tempo a disposizione, ma con i "se" si fanno sempre grandi dischi. L'album sarà, per i fan, come una boccata d'aria pura presa in un paesino di montagna, dopo aver respirato per qualche anno lo smog di una metropoli(s) caotica e rumorosa. I Dream Theater sono questi: un connubio di metal melodico e ballate, fatte per chi li ama e che, in qualche modo, hanno trovato in essi qualcosa che li ha toccati nel profondo, tanto da investirci tempo, soldi e tanto amore. Inutile cercare troppi significati intellettuali.
Un album a segno, una vera e propria sorpresa, dove finalmente i Dream Theater ritornano a lasciare il segno, semplicemente con le note giuste al posto giusto che, per quanto uno possa passare anni a studiare la musica e il suo strumento, rimangono stranamente le più difficili da suonare.
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Altre recensioni
Di Francesco 1987
"Breaking All Illusion è probabilmente la miglior canzone dei Dream Theater almeno dai tempi di Six Degrees Of Inner Turbolence."
"Finalmente smettono di limitarsi ad un pur gradevole autocitazionismo, trovando nuova ispirazione nella drammatica svolta degli eventi."
Di JURIX
Ero raggiante, il mio umore era altissimo tanto che mi sentivo ON THE BACKS OF ANGELS, così già progettavo di costruire i miei BRIDGES IN THE SKY...
Neppure la mia OUTCRY alla cassa riesce risolvere nulla, tanto che quando spiego quanto accaduto, 'na vecchia mi dice.
Di seppe76
Quando tutto appare un encefalogramma quasi piatto, ecco lo scossone che defibrilla l’anima e crea una reazione positiva e rigenerante.
Dopo qualche restauro riapre il teatro: levate il sipario... vanno in scena musica ed emozioni.
Di ilfreddo
La musica è cambiata per un brano diretto dell’effimera durata di 9 minuti scarsi, di cui appena 7 strumentali.
Con questo album di soli 77 minuti mi hanno aperto gli occhi... è come se avessero scoperto una nuova nota musicale da inserire nel pentagramma.
Di Geo@Geo
Nessuno potrà dire che non voglio aiutare questi poveri DT: hanno solo 119 recensioni e non è giusto!
PS: spargo un po' del seme della corruzione... se mi fate vincere vi prometto foto autografata con maglietta bagnata!