Io ci ho provato, vi giuro che ci ho provato. I Dream Theater sono stati un gruppo molto importante per l'evoluzione della mia passione musicale in un certo momento della mia vita e credo che dal vivo possano ancora offrire molto. Oltretutto in un modo o nell'altro credo che ci sia del buono in ogni album che hanno fatto, anche se in misure piuttosto differenti. Un paio di capolavori glieli attribuisco senz'altro e riconosco anche la presenza di alcuni brani spettacolari e altri album molto buoni. Non sono un detrattore, questo vorrei che fosse chiaro, ma mentirei se dicessi di non aver perso qualche speranza negli ultimi tempi specialmente. Nonostante riconosca già da un bel po' che la loro vena creativa e soprattutto innovativa è andata perduta in gran parte una decina di anni fa, A Dramatic Turn of Events pur non rappresentando assolutamente nulla di nuovo nella loro discografia (e anzi facesse riferimento in modo a mio avviso eccessivamente autocitazionista alle strutture di Images & Words) era stato un album positivo a mio parere, che se non altro offriva dei pezzi piuttosto appassionanti e a tratti veramente ben riusciti, specialmente gli ultimi due. Riponevo quindi discrete speranze in questo dodicesimo album, peraltro omonimo, speranze che tuttavia si sono sgretolate dopo il primo ascolto. Riascoltando l'album ovviamente le cose sono cambiate, nel senso che se non altro i ritornelli orecchiabili dei pezzi (questa volta mediamente più brevi del solito, eccetto la lunga suite, comunque camuffata da pezzo di 22 minuti e lunga in realtà non più di The Count of Tuscany) mi sono entrati in testa di prepotenza e ho apprezzato l'ascolto di alcuni di essi più del previsto… ma dal punto di vista prettamente artistico il mio giudizio non è mutato molto.

Ma entriamo un po' più nel dettaglio: l'album inizia con False Awakening Suite, una suite nel senso che è divisa in movimenti ma non certo per la durata, limitata ai 2 minuti. Il brano è pensato per aprire i live in modo epico come fino ad ora avevano fatto i brani di Richard Strauss o di Hans Zimmermann, ma più che altro mi ha ricordato con violenza i Symphony X di Prelude (da V) o di Oculus Ex Inferni (da Paradise Lost), eccezion fatta per i cori epici che sono stati (fortunatamente?) evitati. Non male comunque, si tratta di un piccolo brano variegato e relativamente misurato.

Segue The Enemy Inside. Quando uscì questo pezzo come singolo pensai: «Non è chissà che cosa ma di solito i singoli sono i pezzi peggiori di un album, quindi posso ben sperare visto che non è affatto male.» Ad oggi purtroppo rimane il mio pezzo preferito o comunque se la gioca al massimo con un altro paio, da questo album. Si tratta di un brano cattivo fino al midollo, in cui viene introdotto il fantomatico sound definito "torta al cioccolato" o "dinosauro" di Petrucci, una chitarra molto prorompente ed aggressiva che caratterizzerà almeno l'85% dell'album. Il pezzo si basa su un riff composto da una singola nota e una cellula ritmica niente male, con un lavoro notevole di Mangini, che finalmente (eccezion fatta per il rullante) ha anche un sound di batteria decente. Le tastiere di Rudess sono meno evidenti del solito, comunque si tratta di una scelta comprensibile, considerata la potenza del pezzo. Myung non compare con particolare spicco ma avrà modo di rifarsi finalmente dopo anni scialbi più avanti. LaBrie è affannato e lo sarà per tutto l'album, eccetto alcuni momenti di spicco. La sezione strumentale che a molti ha ricordato Acid Rain dei Liquid Tension Experiment non è malaccio, peccato che Rudess usi sempre gli stessi suoni pur avendo a propria disposizione un arsenale di tastiere che se lo avesse chiunque altro tirerebbe su l'inferno, e che l'assolo di Petrucci sembri una copia venuta male di quello di On the Backs of Angels dal precedente album. Quando il brano finisce, l'ascoltatore si rende conto di essersi trovato innanzi ad un brano tipicamente Dream Theater, energetico e spettinante, che va più che bene per iniziare un album o un concerto con enfasi.

Il terzo brano, The Looking Glass (che ancora mi ha ricordato i Symphony X di Twilight in Olympus, ma solo per il titolo) si apre con un riff definito da arena rock dallo stesso Petrucci. Il ritornello è ben interpretato da LaBrie ed è bello sentire come tutto sommato si destreggino tutti bene negli accordi maggiori e brillanti di questo pezzo non proprio usuale per la band. Il punto è che per tutto il brano non c'è una sola sorpresa, un calo di tensione, un climax, se non quelli stabiliti da bridge e ritornello che si ripetono per un numero non esiguo di volte (e va anche bene, visto come sono trascinanti) senza lasciare che nulla si aggiunga al pezzo. E il dinosauro continua a dominare dall'inizio alla fine. Con Enigma Machine si tocca il fondo. Posso accettare tutto, ma un pezzo così no, mi spiace! I Dream Theater non pubblicavano un brano strumentale (eccezion fatta per l'abbastanza insignificante Raw Dog e il primo piccolo brano di questo album) dai tempi di Stream of Consciousness, mi aspettavo che la tradizione dei brani strumentali notevoli costituita da pezzi del calibro di Erotomania, Hell's Kitchen, Overture 1928, The Dance of Eternity e altri potesse continuare decentemente, e invece no. Anche questo pezzo è caratterizzato per il 100% del tempo dalla dannata torta al cioccolato di Petrucci che non lascia un secondo di respiro, eccezion fatta per alcuni assoli lasciati a Mangini, Rudess e Myung, che dureranno però complessivamente deici secondi, che su sei minuti di pezzo non sono proprio il massimo della concessione. A parte il sound, vogliamo parlare degli assoli? Lanciati completamente a caso e alla velocità della luce in perfetto stile Petrucci/Rudess post-Six Degrees of Inner Turbulence. Davvero deludente e triste pensare che questi signori si preoccupino ancora di dover dimostrare quanto veloce sanno suonare, dopo anni che vengono lodati come i padroni indiscussi del panorama ipertecnico (e anche qui ci sarebbe da discutere, ma comunque…). L'unico assolo misurato di Petrucci sa di già sentito in modo assurdo e il ripetitivo riff principale ricorda molto i Rush.

Ci pensa per fortuna The Bigger Picture a risollevare un poco l'animo, con un'introduzione più tastieristica e una prima sezione cantata molto sentita da LaBrie. Il ritornello non si discosta dallo stile dei precedenti, ma la sorpresa arriva circa a metà del pezzo, con un'inaspettato assolo di Petrucci, per l'esattezza uno dei migliori degli ultimi 10 anni della loro carriera a mio parere e, rullo di tamburi, senza un secondo di shred. La seguente sezione cantata risulta abbastanza carica di pathos (per quanto LaBrie sembri costantemente al limite delle proprie possibilità e sia effettato in modo non proprio gradevole), ma dopo il breakdown di piano il brano riparte e continua fino alla fine con una sezione cantata ridondante e obesa che continua a sapere terribilmente di già sentito (del resto non si può pretendere di risultare molto vari usando sempre gli stessi quattro suoni in croce e le stesse linee vocali).

Behind the Veil ci porta finalmente su altri lidi con un'intro tra l'ambient e la colonna sonora hollywoodiana… ma forse no, il dinosauro torna con un riff spaccone e finalmente Myung ha modo di farsi sentire in modo adeguato con una discreta presenza nel mix. Il ritornello del pezzo è trascinante e le orchestrazioni di Rudess banali ma un po' più presenti. LaBrie se la cava e se sorvoliamo sulla sezione strumentale buttata via in shred e suoni soliti il brano risulta essere uno dei più positivi dell'album, per quanto nulla di particolarmente notevole.

Con Surrender to Reason l'unica novità è qualche momento di chitarra acustica all'inizio e una sezione strumentale centrale caratterizzata da un buon assolo di chitarra e un momento di epicità tastieristica non troppo stravolgente ma che almeno spezza per un attimo il dominio del rettile gigante. Myung e Mangini sostengono a dovere il pezzo, LaBrie è però un poco sottotono, ulteriormente intendo.

Along for the Ride fu lodato da Petrucci prima dell'uscita dell'album come una cosa mai sentita prima e sensazionale e quant'altro. Quando uscì come secondo singolo dopo il primo minuto rimasi deluso. Si tratta di una ballad che definirla scontata è dire poco. Addirittura solo sentendo come iniziava sono stato in grado di predire esattamente il sound di tastiera che avrebbe usato Rudess per il suo assolo, ossia lo stesso di Beneath the Surface, usato però in modo molto meno efficiente di quanto fatto in quell'ottimo pezzo. Il brano è piuttosto scialbo e Petrucci non riesce nemmeno nella ballad a liberarsi del terribile dolce ipercalorico, mentre Rudess continua con i suoi due suoni stra-riciclati e nemmeno tanto belli. LaBrie è scialbo, come tutto il pezzo. L'intro però non è male, questa gliela riconosco.

Brividi lungo la schiena, non di godimento ma di terrore: è il turno della suite di 22 minuti (farlocchi come già detto, ma comunque), Illumination Theory. Non sapevo cosa aspettarmi, eccetto per l'introduzione, che sentivo avrebbe voluto richiamare l'epicità della titletrack di Six Degrees of Inner Turbulence. E infatti inizia esattamente uguale, che sorpresa! Dopo due minuti neanche ci troviamo nel dominio solito di Petrucci e dopo un intervento scontato di Rudess entra in scena LaBrie con memorie pericolosamente orientate verso Systematic Chaos e in particolare la tristemente famosa Constant Motion. Non c'è niente da fare, LaBrie non ha la voce per fare l'irato, men che meno oggi, e il risultato è poco credibile. Dopo un'altra sezione strumentale non troppo notevole i toni si spengono per tipo la terza volta nel disco alla nona traccia e Petrucci come per magia scompare. Rimangono le atmosfere ambient di Rudess, per poi lasciare spazio alla tanto anticipata sezione orchestrata dal giovane Eren Basbug, l'amico mediorientale di Rudess col quale quest'ultimo ha collaborato già in diverse occasioni. Il ragazzo compie un bel lavoro e porta in vita le armonie orchestrali composte presumibilmente dal tastierista barbuto con reminiscenze cinematografiche. Un po' lunga? Forse sì, ma non eccessivamente. Un po' anonima? Forse sì, ma almeno si sente qualcosa di un pelo diverso in questo album. Di colpo entra John Myung con delle botte di basso che me l'hanno fatto amare come non accadeva da tempo, perfettamente accompagnato dal buon Mangini. LaBrie torna con energia, ma stavolta in maniera convincente. La sezione strumentale diventa un po' più variegata e imprevedibile del solito, si sente addirittura un pianoforte invece dei soliti suoni percussivi o lead sounds shreddati, poi dopo un unisono il terrorismo del dinosauro torna e con lui un assolo di chitarra sparato a mille, com'era lecito aspettarsi. Perché permettere ad un pezzo di essere ottimo per più della propria pur consistente metà? Per fortuna ben presto il senno viene riacquisito e LaBrie si lancia nelle ultime battute dell'album con discreta interpretazione un'uscita di scena sempre per qualche motivo un po' zoppicante ma d'effetto, lasciando le ultime parole ad un assolo di Petrucci non malvagio. Al minuto 18:52 viene suonato l'ultimo accordo, con prevedibile coda di Mangini e gong finale, ma quindi che cosa sono i successivi 3 minuti? Sono un modo per dire che hanno superato la durata dell'ultimo pezzo mastodontico, The Count of Tuscany, lungo appunto poco più di 19 minuti, cosa che non sarebbe stato possibile senza questo finale fasullo. Dopo qualche secondo di silenzio parte un giro di piano sovrastato da una melodia di chitarra molto tranquilla e che per sonorità ricorda proprio la lunghissima sezione centrale del sopracitato pezzo da Black Clouds & Silver Linings. Senza che nulla di ché accada, il brano si conclude dopo qualche minuto. Quale fosse la necessità di allegare un pezzo totalmente scollegato dal resto alla suite non so dirlo, se non appunto per quanto ipotizzato poc'anzi, ma sarebbe davvero triste. Anche perché il finale è carino e poteva benissimo rappresentare un pezzo a parte, se magari un minimo elaborato ulteriormente a la Hourglass, per dire. E invece no.

Per concludere, quindi, questo album non è un fallimento totale ma è senz'altro una caduta rispetto al precedente lavoro, in cui l'unico aspetto migliorato è la presenza del basso di Myung che finalmente si dà alla ribalta in alcuni momenti e il sound e forse la creatività (nel precedente album assente quasi del tutto per forza maggiore) della batteria di Mangini, eccetto il rullante discutibile. LaBrie non ce la fa più, Rudess è sempre più assente e quando compare è scontato e non sfrutta neanche il 5% del potenziale del suo arsenale da cinquantamila dollari e Petrucci è onnipresente e sempre tecnicissimo ma terribilmente monotono specialmente nella scelta dei suoni. Molte sezioni risultano ridondanti o sanno di già sentito, spesso le uniche cose che si desidera ascoltare dei pezzi sono i ritornelli, solo perché sono orecchiabili, ma il resto sembra a volte non aver senso di esistere.

Mi dispiace di dover essere così duro con un gruppo che un tempo sfornò due dei miei album preferiti di sempre e considerai per un certo periodo il mio gruppo preferito. Ma se sfornare album ogni due anni significa continuare a riciclare idee che ormai sanno di marcio, allora forse dovreste imparare dai Tool, che si stanno facendo aspettare da otto dannati anni ma intanto non ne hanno sbagliata una e dubito lo faranno col loro quinto album in quasi 25 anni di carriera.

Affibbiai a primo ascolto un 7- a questo album. Rimango dell'idea, per il semplice fatto che per un certo periodo l'ho ascoltato con discreto piacere perché se non altro è spesso orecchiabile ed energetico. Ma artisticamente parlando la sufficienza è a malapena raggiungibile.

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