Così tante bugie e contraddizioni infuriano nelle nostre vite”: sono queste le parole con cui Edgar Broughton apre “In Side Out” (1972), quarto album della sua omonima band, e già si capisce che il suo umore non è di certo dei migliori. Come dargli torto? All'indomani del terzo lp e relativa tournée, il gruppo fatica ancora ad emergere dall'underground inglese e ad affermarsi. E pensare che il cosiddetto “meat album” di canzoni adatte alle radio ne conteneva parecchie... Ma del resto, a Edgar non interessa più di tanto diventare una rock star multimiliardaria, gli basta soltanto avere quel tanto di riconoscimento in più da non doversi imbarcare continuamente in tournée sterminate, spesso in condizioni poco agevoli, suonare più di qualche volta senza compenso, essere tallonato dalle autorità e via dicendo; il tutto per mantenere un seguito rispettabile, ma neanche del tutto esaltante. Dopo circa quattro anni trascorsi così, è anche legittimo averne le palle piene. Inoltre, per degli idealisti del genere è sconfortante vedere che le situazioni nel mondo non accennano minimamente a migliorare: guerre e conflitti che continuano, politici sempre più cinici e corrotti, diritti civili infranti quotidianamente e così via. Tutto ciò fa sprofondare il buon Edgar in una profonda crisi, cosicché egli si chiude in casa, si isola dal resto del pianeta e manda tutti quanti a farsi fottere. Ma gli altri della band non stanno a guardare, soprattutto il batterista, nonché suo fratello Steve, che in realtà ama la vita “on the road”. Anche la Harvest sembra non voler rinunciare alla band. Avranno pensato i discografici: “i Broughton non saranno dei campioni di incassi, ma nondimeno sono un bel gruppo con dei buoni numeri. Prima o poi impareranno ad essere meno radicali e più accondiscendenti, a non far incazzare le forze dell'ordine del paese, ad accattivarsi i favori delle radio, ecc. Intanto, finché nel roster abbiamo degli assi da classifica come Pink Floyd e Deep Purple, possiamo dare altre possibilità anche a loro senza rimetterci”. Al che va a fargli visita un amico, nonché legale della band, e lo convince, non senza qualche contributo “stupefacente”, a tornare sui propri passi (fatto poi prontamente documentato nella opener dal titolo programmatico Get Out Of Bed). Sarà che la mescalina è particolarmente buona, Edgar si ripresenta alla vita reale, deciso a riprendere in mano la sua band, e con questa si stabilisce in una villa del Devon a registrare “In Side Out”. Gruppi underground finanziati dalle major per comporre e incidere: proprio come succede oggi, nevvero? La cosa ancora più sconcertante è che Edgar ha veramente deciso di cantarle di santa ragione a tutti, music business che in qualche modo lo foraggia compreso, e per farlo decide di accantonare gli ambiti già conosciuti, tanto le sonorità eversive dei primi due album quanto i compromessi pop del terzo, e di affidarsi a del buon rock blues schietto e sanguigno, non privo comunque di tendenze hard e velleità sperimentali. Lo stile è certamente meno imprevedibile e più classico, ma scrittura ed esecuzione sono senza dubbio più solide ed accurate. Bollato impietosamente come un lavoro minore, probabilmente perché alla band manca ormai la carica rivoluzionaria dei primi anni, “In Side Out” merita invece di essere riscoperto proprio per questo: la voglia di innovare e di dimostrare qualcosa sempre e in ogni caso è sotto le scarpe, ora si ha solo voglia di suonare, non importa se il disco diverrà un classico o se non aggiungerà una beneamata mazza alla storia. Questo sì che è lo spirito giusto, Edgar! Eh già, perché, in culo gli snobismi, il lavoro è veramente un bel sentire anche quando sfiora la maniera e la citazione, come in una Chilly Morning Mama chiaramente, quasi sfacciatamente stonesiana e in Gone Blue, rock'n'roll alla Who e cantato beefheartiano. E se lo è in questi casi, non può che essere migliore quando la personalità della band prende il sopravvento e no, anche se si sforza di essere “canonica”, non riuscirà mai a esserlo fino in fondo: è della Edgar Broughton Band che stiamo parlando. Qualche prova? Si ascoltino I Got Mad (altro titolo che la dice lunga sullo stato d'animo generale), blues sincopato e isterico, e la ballata acustica Homes Fit For Heroes, amara ma non senza una punta di beffardaggine, che riflette sulle condizioni dei reduci di guerra - in questo caso del primo conflitto mondiale, in una sorta di parallelismo con quelli del Vietnam. E che dire degli undici minuti di hard rock funkettone di It's Not You? Prova eccellente di talento ed eclettismo da parte della formazione – soprattutto se si pensa che, stando alle cronache, è frutto di una take in presa diretta -, specialmente del frontman, in grande spolvero sia come cantante e chitarrista sia come drammaturgo nella lunga e delirante seconda parte recitata. Musicisti non più alle prime armi, dunque più abili e smaliziati. Non sono passati che tre anni dalla dirompente scabrezza del debutto “Wasa Wasa”, eppure ne sembrano trascorsi molti di più, tanto la band è maturata. Peccato che ad averlo compreso o perlomeno apprezzato non siano stati in molti: il disco vende ancora meno degli altri e la banda Broughton sembra destinata a diventare un oggetto di culto più che ad entrare nell'Olimpo dei del rock. Eppure, tanto per fare altri esempi, se si ascolta The Rake non viene da pensare che avrebbe fatto la sua figura in un disco di un grande nome del rock blues? E la meditativa Double Agent, terzinato per sole chitarra e voce, non è forse degna di Leonard Cohen? Ma, d'altronde, anche Gabriel Batistuta avrebbe vinto il Pallone d'Oro se, anziché invecchiare alla Fiorentina, si fosse trasferito in un grande club europeo ed avesse vinto la Champions League...

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