Grigi sfondi d'alberi morti e pietre tombali sfumati a pastello dal dimesso pianto di un violoncello, da pacati accordi di chitarra acustica ed incorporee note di pianoforte, sui quali marziali tamburi e voci recitate maschili tratteggiano scenari medioevali ed oscuri. Ecco "Silence", breve traccia che introduce nel mondo oscuro e senza speranza creato dalla musica di questa band australiana. La tavolozza degli Elegeion è piuttosto scarna: il colore dominante è un esangue grigio, tutte le sfumature presenti tendono al nero più tetro e qualsiasi spiraglio di luce è stato rimosso per rendere ancora più claustrofobiche le visioni atmospheric-doom del terzetto.

Il progetto è ormai attivo da undici anni ma loro hanno avuto modo di farsi scoprire (anche dal sottoscritto) soltanto verso la fine del 2005 con la pubblicazione dell'album "The last moment" (ad opera dell'americana Dark Symphonies), sospeso tra episodi di pregevole fattura e riempitivi inascoltabili, penalizzato dal minore utilizzo della voce femminile che ha reso grande questo disco.

"Through the eyes of regret" (2001, Modern Invasion Music) è la prima vera fatica degli Elegeion ed è particolarmente piacevole all'ascolto rispetto al suo successore grazie ad un innocenza, ad un'immaturità di fondo che rendono le sue nove canzoni sincere ed intense, come le emozioni più cupe che in attimi di sconforto pervadono l'animo. Le influenze vanno ricercate nei primi Anathema e nei My Dying Bride dell'era Martin Powell, ma Anthony (leader e compositore) e compagni aggiungono agli autunnali arpeggi, ai lunghi soli dai toni malinconico-psichedelici, ai riff granitici e volutamente monotoni della chitarra ed alla pesantezza della sezione ritmica un minuzioso lavoro d'archi e pianoforte rendendo l'impasto sonoro ancora più depresso e sconfortante, ma al contempo dolce e cullante, come la malinconia che ci attanaglia di fronte ad un tramonto guardato dalla finestra di casa (significativa da questo punto di vista è la titletrack). Che dire poi della superba prestazione dietro ai microfoni? Il mastermind sembra avere uno scream che proviene direttamente dall'intestino anziché dalle corde vocali, e quando ci regala sporadici sprazzi di clean vocals abbraccia tonalità sciamaniche quasi atone che creano un effetto straniante nel sovrapporsi alle crude note di chitarra. Nell'ardua impresa di dar voce all'oblio dell'anima, Anthony è coadiuvato dalla talentuosa pianista e vocalist Dieudonnee, romantica e disincantata, sincera e commuovente come se Vincent Cavanagh si trasformasse in una creatura dell'altro sesso (care aspiranti cantanti, scordatevi l'epigono della cantante lirica ed ascoltatevi la conclusiva e completamente vocale "For eternity" per capire che per essere profonde non occorre avere una voce da soprano).

Il pianoforte non è per nulla abusato e nell'economia del sound della band ricopre un ruolo puramente decorativo, ma quando si fa sentire riempie di languore e decadenza le melodie funeree di canzoni come "Oration of indifference", bellissima nel contrapporsi tra chitarre "zanzarose" e delicati rintocchi di tasti d'avorio, nell'incantevole melodia ripresa dalla voce di Dieudonnee, un canto che sa d'abbandono e disperazione, di passeggiate tra vie di cimiteri bagnate da un'incessante e fredda pioggia autunnale, cosparse di foglie morte ed ammantate da veli di candida nebbia. Ascoltate l'intermezzo totalmente affidato agli archi, al piano ed alla voce femminile e scioglietevi in un abbraccio di dolore cieco, lasciatevi cullare dalla nenia senza tempo ripresa da entrambe le voci e dalla chitarra acustica, sporcata da un basso dal gusto retrò e dalla batteria mai invadente di James, sospesa nei cieli autunnali disegnati dagli eterei vocalizzi della bella singer... E rassegnatevi, perché la speranza è un sentimento che non è contemplato da questo album, e per il genere suonato è giusto che sia così. "Thoughts" è inizialmente corredata da bellissimi sottofondi d'archi, rivestiti da una disperazione a tratti insostenibile, ma lascia poi spazio ad un'improvvisa accelerazione di chitarre sulla quale interviene Dieudonnee col suo canto dolciastro ed appagante, seguita a ruota dalla voce recitata del compagno di squadra e da un amalgama tra corde acustiche ed elettriche ed ovattati beat, uno squarcio travolgente e veramente azzeccato. Rompe a metà la canzone un crepuscolare arpeggio sul quale si adagia un canto intimo, al quale subentra un solo che sembra fatto di lacrime anziché di note.

Tutti coloro che hanno amato i primi Anathema avranno dunque capito a quale tipo di musica e sensazioni mi sto riferendo, dunque non vale la pena citare le canzoni successive (eccezion fatta per "A rare moment", momento topico del disco, brano inizialmente acustico sorretto da voce, archi e chitarra acustica, slanciato in un finale di pura mestizia e chiuso da violini quasi barocchi). Sappiate soltanto che alla formula sperimentata nel passato recente dei fratelli Cavanagh e soci sono stati incorporati elementi più cari al gothic metal come gli archi e le female vocals, utilizzati però in maniera completamente differente da quanto fatto da Theatre Of Tragedy, Tristania e compagni. Questi elementi diventano complementari di un sound che trova la propria forza principale nella chitarra, vera protagonista di un album che narra dello scoramento dell'animo, e per farlo si adorna di una bellezza assolutamente unica. Non occorre l'originalità di tante band dal dubbio gusto compositivo oggigiorno tanto osannata per creare capolavori; ci vogliono soltanto tanta sincerità e la voglia di trasmettere emozioni vere. E cosa c'è di più vero della sofferenza? Forse nient'altro, ed è così che molti gruppi poco ispirati abbracciano oggi il gothic metal, sperando di apparire sinceri e tuttavia non facendo altro che snaturare una proposta che dal doom ha sempre tratto linfa vitale ed ispirazione. "Through the eyes of regret" è un momento raro, di pura qualità; da anni se ne sentiva il bisogno.

Lasciatemi dire che finché verranno pubblicati album come questo il doom metal potrà ancora considerarsi un genere paradossalmente "vivo", in quanto nutrito da un'aria piena di morte, rabbia, disperazione, tristezza, disillusione e malinconia. Meno ostici degli Shape Of Despair, meno sinfonici dei Silentium, più maturi dei primi Lacrimas Profundere... Loro sono semplicemente gli Elegeion, maestri di un genere dimoranti in terre lontane e, per questo, distanti da qualsiasi trend, autori di una proposta infinitamente valida e sincera che lascerà il segno tra coloro che sentono la mancanza del doom metal della prima metà degli anni novanta, ma anche tra coloro che cominciano a stancarsi dei soliti album gothic.

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