L'epicentro tellurico dell'ondata psichedelica è stato San Francisco dove, nella seconda metà degli anni sessanta, le istanze di cambiamento avevano Haight-Ashbury come quartier generale delle migliori menti di quella generazione, che credette realmente che con la pace, l'amore e la fratellanza si potessero cambiare le sorti di un mondo, destinato a spegnersi sotto il peso dell'implosione consumista ed egoista.

E purtroppo ne uscirono sconfitte.

Eric Burdon vi si era appena trasferito, definitivamente, sciogliendo le righe di quella formazione conosciuta fino ad allora come The Animals, autori del più lascivo e torbido blues, fra l'ondata di gruppi che segnarono la British Invasion dei primi anni sessanta. Una band del tutto atipica nel panorama musicale inglese del periodo, poiché il quintetto di Newcastle era molto più incline alle ruvide e slabbrate sonorità americane, del blues e del rock 'n' roll, rispetto all'energico e rigoroso "manierismo" beat che imperava nei gruppi provenienti dalla terra di Albione. Autori di alcune hit come "The House Of The Rising Sun" , "Don't Let Me Be Misunderstood" o "We've Got To Get Out Of This Place", la loro popolarità era molto più vasta oltreoceano che in patria, e nonostante il nuovo contratto con la Decca/London, "Animalism" (1966), il loro lavoro più compatto e potente vide la luce solo negli Stati Uniti, ponendo di fatto la parola fine sull'esperienza (il bassista Chas Chandler si trasferì a New York, ed aspirante produttore "scoprì" il giovane chitarrista Jimi Hendrix, portandolo a Londra e facendo la storia). Come detto, Burdon (deus ex-machina del gruppo) decide di immergersi nella caleidoscopica vita di Frisco e circondato da una serie di musicisti fidati (dopo alcuni esperimenti supervisionati anche dal giovane genio Zappa) licenzia il manifesto della Love Generation, "Winds Of Changes" (agosto 1967). Burdon ne diventa il portavoce ed il megafono rivolto al mondo, ed il disco si apre con la sua voce abrasiva che si distende morbida nel dipanare la litania dei nuovi venti di cambiamento in atto, adagiandola sul tappeto volante intrecciato dal violino acido di John Weider e dalla chitarra visionaria di Vic Briggs, in un mantra ipnotico guidato da un sitar visionario che entra ed esce dalle maglie ritmiche del basso di Danny McCullogh e della batteria del fidato Barry Jenkins, per il Manifesto Lisergico che è title-track:

"There are winds of changes blowing
Gathering leaves up in its path
And the people who are the leaves
Will remain in our hearts
With love, till eternity"

"Poem By The Sea" vive di rumorismi che sottendono la voce di Burdon che irrompe in una malinconica landa desolata, straziata da un violino nomade, che si prende la scena finale per introdurci in modo delicato al furore psicotico di "Paint It Black", successo planetario di qualche anno prima dei Rolling Stones, che a dispetto del testo gli animali le rovesciano addosso secchiate di vernice multicolore, abbandonandosi selvaggiamente ad un'orgia pagana di purificazione. "The Black Plague" vive su una struttura che richiama i canti gregoriani e permette a Burdon di recitare la sua visionaria parabola surreale; prima di lanciarsi nell'infuocato blues di "Yes I Am Experienced" (superfluo sottolineare a chi rivolge la propria risposta...). I sentimenti per la città che lo ha adottato vengono sublimati nello splendido canto d'amore che è "San Franciscan Nights", folk acido del miglior lignaggio, tanto da scalare le classifiche di vendita pur non vendendosi e combattendo ad armi pari con quello di Country Joe & The Fish, Kaleidoscope (USA), The Byrds, Beau Brummels.

La seconda parte dell'album perde, forse, un po' di incisività, ed il proclama in perfetto Leary-style "Man-Woman" musicalmente è solo un accenno a ritmiche svagatamene tribali, con il proto-rap di Burdon che ci ricorda "This is the beginning of the end"; mentre "Hotel Hell" ricorda molto da vicino le atmosfere rarefatte del "Forever Changes" dei Love, con umori spagnoleggianti, ma senza risultare incisivo così come lo fu il lavoro di Arthur Lee e soci, che ritornano anche nell'altra hit del disco "Good Times", anche se imbastarditi da una penombra di (mersey)beat... quasi Burdon non volesse rompere il cordone ombelicale con le sue origini. "Anything" è una morbidissima ballata in equilibrio fra l'easy listeng da botteghino di Bacharach e quello più colto di Lee Hazelwood; unico brano del disco a suonare sottotono, prima di irrompere nella freakedelia zappiana della conclusiva "It's All Meat".

Esausti per l'energia profusa (malignamente definita da più parti isteria furiosa degli esperimenti di Burdon con LSD) anche Eric Burdon & The Animals terminano la loro attività, ed il nostro assembla un'altra formazione per quello che sarà il suo sublime canto del cigno "The Twain Shall Meet" (1968).

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