Se le sperimentazioni dei Kraftwerk e il synth-pop hanno reso l’elettronica popolare, è tuttavia negli anni Novanta che si è assistito a una diffusione di questo tipo di sonorità. L’evoluzione tecnologica ha favorito la nascita dei cosiddetti “nuovi suoni” (così erano classificati in un negozio dove dilapidavo i miei risparmi); questi ultimi hanno messo in discussione lo storico primato del rock e hanno cambiato, forse per sempre, il modo di concepire e realizzare musica.

Molti sono i generi che hanno letteralmente segnato il decennio: la techno, la drum and bass, la house, il big beat. Tra questi merita di essere ricordato il trip-hop, chiamato Bristol sound per il suo essere associato alla scena underground della città inglese (in realtà il movimento era più ampio e spaziava dall’arte all’attivismo politico, dal writing alla stampa indipendente).

Questa etichetta è stata inventata dal giornalista Andy Pemberton per definire quel mix di hip-hop rallentato, jazz e psichedelia che ha trovato la sua massima espressione negli album pubblicati dai Massive Attack, dai Portishead e da Adrian Thaws, meglio noto come Tricky.

Inutile discutere sui limiti della definizione e sul perché vengano inseriti nel calderone trip-hop artisti che non lo sono affatto (mi vengono in mente DJ Krush e soprattutto DJ Shadow, il quale, più che con la scena di Bristol, ha avuto forti legami con i Blackalicious e con la Left Coast statunitense). Ciò che importa sottolineare in questa sede sono i tentativi, più o meno riusciti, di inserire le sonorità “trippy” nel mainstream dell’epoca.

L’esempio più evidente è rappresentato dai Morcheeba, arrivati al successo dopo l’uscita di Big Calm, nel 1998. Nemmeno l’Italia si è tirata indietro: i primi Delta V e gli Üstmamò di Stard’Ust sono stati influenzati da una certa elettronica proveniente dal Regno Unito. A questi gruppi possiamo aggiungere Esthero, cantautrice canadese affiancata, all’inizio, dal produttore e chitarrista Martin McKinney.

I due si conoscono nella fredda Toronto e decidono di mettere su una band, che comincia a registrare tra il 1996 e il 1997. L’anno successivo vede la luce Breath from Another, esordio acclamato dalla critica ma sfortunato dal punto di vista delle vendite, limitate quasi esclusivamente al Nord America. Il flop commerciale sarà tale da portare alla dissoluzione del progetto e al ritorno della sola Esthero nel 2005, quando verrà dato alle stampe Wikked Lil’ Girl, ritenuto da molti inferiore al suo predecessore.

Torniamo ora a Breath from Another. Se qualcuno volesse ascoltare il debutto di Esthero resterebbe sorpreso, poiché si troverebbe di fronte a un album interessante soprattutto da un punto di vista musicale. Il successo dell’operazione è da attribuire al lavoro svolto da Martin McKinney, il quale, oltre a occuparsi dei sample e della programmazione delle batterie, si trasforma in un raffinato arrangiatore, capace di mescolare hip-hop, elettronica e orchestrazioni a tratti maestose.

Il sound confezionato da McKinney rischia di mettere in secondo piano la vera protagonista, vale a dire la cantante Jenny-Bea Englishman. La sua voce non è paragonabile a quella di una virtuosa come Beth Gibbons e neanche i testi, sensuali e a volte espliciti, raggiungono la profondità di quelli dei Portishead. Nonostante ciò, la sua presenza contribuisce a creare un’atmosfera sognante, grazie a un po' di sovraincisioni che ne enfatizzano il timbro calmo e rilassato.

Volendo citare qualche brano potremmo iniziare dalla title-track, caratterizzata da una base ipnotica che passa con nochalance dall’hip-hop alla drum and bass. Intrigante il testo, ricco di allusioni sessuali e sorretto da un’ottima performance di Esthero, accompagnata dai rapper Shug e Meesah.

Le variazioni ritmiche e sonore la fanno da padrone nel singolo “Heaven Sent”, una riflessione sul rapporto tra amore e morte dove, nel ritornello, troviamo persino delle chitarre elettriche, vicine al dark-rock di Mezzanine.

L’altro estratto “That Girl” e la bellissima “Country Livin’ (The World I Know)” sono i due pezzi più pop di Breath from Another, ma restano assolutamente validi grazie all’appeal radiofonico del primo e all’arrangiamento del secondo, condito da archi e chitarre acustiche (belle le liriche, con quel The world I know/Is a world too slow/(If you) Don't move fast enough, keep your head low” che pare quasi un manifesto del disco).

Dopo il breve interludio “Flipher Overture” incontriamo le tracce più coraggiose: tra queste la spagnoleggiante “Half a World Away”, il dream-pop ovattato di “Superheroes” e la lenta “Indigo Boy”, incentrata sul tema dei bambini indaco (giovani dotati di capacità soprannaturali destinati, secondo alcuni, a salvare l’umanità).

Una volta terminata l’intensa “Swallow Me” c’è tempo per “Anywayz Part 2”, ottima jam session che chiude un lavoro a dir poco riuscito.

Resta il rammarico per la scarsa visibilità ottenuta da Esthero (centomila copie vendute negli Stati Uniti e un disco d'oro guadagnato in Canada), ma poco importa, poiché Breath from Another è uno dei migliori esperimenti trip-pop del periodo. Riscoprirlo oggi è un modo per rendergli giustizia e rispolverare un LP che, a tanti anni di distanza, non smette per nulla di impressionare.

Insomma, quando Jenny-Bea Englishman afferma che “Music was the lamb that made a lion out of me” c’è da crederle. E soprattutto da fidarsi.

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