Qualsiasi pollo d'allevamento nutrito dall'industria discografica è tenuto a sfornare più o meno un disco all'anno, anche se è a corto di idee. Che poi deve essere più o meno il suo stato naturale, dato che alle spalle ha un esercito di manager, lookologi, tendenziologi, pi-erre e parassiti vari, pagati (ottimamente) per pensare al posto suo. Pensare cosa, poi ? Non certo a trovare qualche spunto musicale interessante, né tanto meno parole che trasmettano emozioni, ma soltanto a organizzare il lavaggio del cervello necessario per accalappiare il maggior numero possibile di compratori. Inutile fare nomi, anche perché si rischia di urtare la suscettibilità di qualche anima candida che si ostina ad attribuire un valore artistico a qualcuno di questi "prodotti". E poi proprio questa settimana chi vuole potrà verificare la loro identità e la misura del loro talento in quella luccicante rassegna nazionale chiamata Festival di Sanremo. Molto più interessante è occuparsi di cosa succede quando a trovarsi a corto di idee è un artista, cioè qualcuno che oltrepassa decine di tormentoni, look e Sanremi per durare nel tempo lasciando il segno. Può succedere anche ai migliori, e quindi è successo anche a Fabrizio De André. In tempi più recenti la soluzione è stata la più ovvia, un lungo silenzio, ma nel 1974, dopo le polemiche seguite al controverso capolavoro "Storia di un impiegato", la soluzione fu questo strano disco di transizione, volutamente dimesso anche nella grafica, uscito con un titolo che più neutro non si può: "Canzoni".

È una raccolta in cui De Andrè in parte rispolvera vecchissimi classici, già apparsi su 45 giri negli anni '60, come "Fila la lana", fantastica e medievaleggiante ma anche velatamente antimilitarista, e "La città vecchia", vero e proprio affresco in forma di valzer, in cui pare di averli lì, sotto gli occhi, i vecchi carruggi genovesi che scendono al porto, e l'umanità che li popola, misera e corrotta, ma autentica. Quasi un piccolo campione degli emarginati di tutto il mondo, quelle "Anime salve" che trent'anni dopo saranno viste ancora con lo stesso spirito di fratellanza. Ma il nocciolo del disco è una serie di magistrali traduzioni in cui De Andrè approfitta del momentaneo calo d'ispirazione per rendere omaggio come meglio non si potrebbe ad alcuni dei suoi maestri. Si parte con il Bob Dylan di "Desolation row" che qui è "Via della Povertà", immaginaria strada, sfondo da incubo per svariati personaggi, storici, simbolici o realistici, ma tutti visti con un feroce distacco, tipicamente dylaniano. Come piccoli burattini che si agitano inutilmente davanti ad uno scenario fasullo, nei dieci minuti di questa ballata percorrono Via della Povertà Hitler, Eliot, Pound, Einstein, Casanova, ma anche un'infinità di figure volutamente insignificanti. La traduzione è frutto della collaborazione con un giovane allora emergente, tale Francesco De Gregori, che non a caso ha sempre considerato sia De André che Dylan suoi maestri.

"Le passanti" è tradotta da Georges Brassens, vecchio maestro chansonnier da noi quasi del tutto ignoto. C'è dentro tutto lo spietato gioco del destino, delle occasioni perdute, il cui peso si fa sentire più forte "nei momenti di solitudine, quando il rimpianto diventa un'abitudine". È allora che si piange ogni possibile incontro, che invece non è accaduto e non accadrà mai, con donne conosciute appena con cui magari valeva la pena di vivere una vita intera. Grazie anche ad una musica adeguata, commuoversi è il minimo. Non sembra, ma dello stesso autore è anche l'ironica "Morire per delle idee", dove chi invita gli altri a sacrificarsi per degli ideali viene raffigurato come uno che in genere supera in longevità "il buon Matusalemme", e quindi "Moriamo per delle idee, sì ma di morte lenta. . . ". Ancora di Brassens è "Delitto di paese" storia di un "assassinio senza pretese", per il quale i due esecutori però provano un pentimento così sincero da essere poi perdonati da Dio, alla faccia di qualche bigotto stizzoso.

Dell'ombroso Leonard Cohen, grande cantautore canadese, è la bellissima "Suzanne", uno di quei ritratti femminili indelebili e allo stesso tempo misteriosi, una specie di pazza, di "diversa", una "donna del porto", capace però di dare amore a piene mani a chi ne ha bisogno. Anche musicalmente è una canzone di straordinaria bellezza, infinitamente malinconica, in grado di sconvolgere gli animi più sensibili, ma probabilmente anche di turbare un pochino quelli più duri e ottusi. Ancora di Cohen è "Giovanna d'Arco", forte figura di donna consapevole di essere destinata al sacrificio, per certi versi simile alla Maria della "Buona novella", poco Madonna e molto donna. È vero che questo disco non è tutta farina del sacco di De André, ma anche di tradurre c'è modo e modo, e queste sono canzoni bellissime anche in una lingua dalla metrica non certo facile come l'italiano.

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