Faber... E' molte cose. Un uomo che ha cercato, un essere umano che ha vissuto, sofferto, viaggiato, sognato. E tramutato il suo vissuto in sensazione, in significato. In musica e poesia. Le sua voce, che tristemente manca in questo nuovo millennio, ha riunito donne e uomini che a livello di vite, sofferenze, viaggi e sogni possono avere poco a che spartire. Eppure so che un suo fan non può che essere mio fratello. Perchè esiste una grande verità che emerge dalle sue canzoni, fors'anche una serie di verità più piccole.

Fattostà che siamo nel 1970, e Faber decide di comporre questa meravigliosa suite, che narra della vita dell'uomo che più di tutti ha influenzato la storia dell'occidente. Apocrifo, come i Vangeli da cui prende spunto, spietato, commovente, poetico e prosaico, dipinge l'intero quadro della vita di Cristo dando voce, come suo solito, anche ai comprimari. Per non dire che sono loro a raccontare. Come se un buon padre avesse dato voce ai figli comprimari e non solo al primogenito. Ed anche loro sono miei fratelli... Come nel brano di chiusura, "Laudate hominem": "Non voglio pensarti figlio di Dio / Ma figlio dell'uomo / fratello anche mio". Ma andiamo con ordine.

Dopo il breve intro "Laudate dominum" viene narrata "L'infanzia di Maria", di come fu assegnata in sposa a Giuseppe, a queste "Dita troppo secche per stringersi su una rosa / ad un cuore troppo vecchio che ormai si riposa". Marito / genitore dunque, che dopo essere stato lontano da Maria per 4 anni, torna da lei. E si chiede "Il motivo di un inganno inespresso dal volto", "Quel segreto che si svela / quando lievita il ventre". Ovvero: SARO' MICA UN CORNUTO? Faber ci libera da questo empasse sfoderando quella che a mio parere è la canzone più bella, "Il sogno di Maria". Il suo quadro dell'annunciazione. Per non sciorinarvi l'intero testo, che per quanto mi riguarda andrebbe citato per intero, mi limito a "Forse era sonno / ma sogno non era / "lo chiameranno figlio di Dio" / parole confuse nella mia mente / svanite in un sogno / ma impresse nel ventre". Niente sofismi, niente parole culte e latinismi. Solo immagini più vive del più lucido dei sogni, del più cromatico dei quadri, del più fotografico dei film. E si comincia a capire che ognuno di questi personaggi viene per una volta svestito dall'armatura iconica, dal sacro che non appartiene ai laici. Uomini, donne: come chi canta e chi ascolta, chi suona e chi sogna.

Fin qui (ed anche oltre) il tessuto musicale è come sempre semplice: chitarra acustica, voce, violino, pianoforte. Poco altro: ma se non lo stessi ascoltando proprio adesso non ci avrei pensato. Se poi siete dei rocchettari irriducibili, approfitto per consigliare "Fabrizio de André + PFM vol. 2" (1980) e "In concerto" (1998), dove troverete alcuni di questi brani con arrangiamenti completi. Da far tremare i polsi.

Segue "Ave Maria" e "Maria nella bottega di un falegname", e aggettivi e avverbi cominciano a scarseggiare; la prima celebra la maternità, la seconda è il triste presagio della morte. "La [croce] più grande per chi guerra insegnò a disertare" attende Gesù, a simboleggiare che chi agisce in direzione ostinata e contraria (ok, è una citazione sempre di Faber, ma molto più "tarda". Non trovavo altre parole!) è spesso condannato al martirio. Dopo, "Via della Croce". Qui Coda di lupo dipinge come al solito tutti i dettagli della salita al Golgota, iniziando dal Cristo. E ancora oggi mi chiedo quale Dio abbia ispirato una frase come "Le voci dei padri / di quei neonati / da Erode per te trucidati". Le donne, che seguono piangendo l'ascesa, grate a chi ebbe il coraggio di perdonare Maddalena. Gli apostoli, travolti dal terrore e muti di fronte al massacro del loro pastore. I sacerdoti, che scrutano la folla, ed in particolare i poveri. E' da loro che è venuto fuori questo messia che tanto ha messo a rischio il loro potere. E sono proprio "Gli umili, gli straccioni" i protagonisti della strofa, che "Non sono venuti ad esibire un dolore" per quanto amino quest'uomo, questo rivoluzionario mosso dall'amore. Infine, riflettori puntati su quei due personaggi che nel pieno stile di Faber condividono il destino del Redentore, morendo sulla croce al suo fianco, che come lui non hanno che le madri a piangerli. I due ladroni, che così poco spazio trovano nei vangeli sinottici. L'umanizzazione del Cristo è quasi completa. "Tre madri", un semplice brano di tre minuti scarsi con pianoforte e violino lenti e sommessi (ben riuscito lo stacco col precedente pezzo, con un motivo chitarristico più complesso e incalzante): semplicemente Faber canta quello che Maria NON PU0' CHE AVER DETTO. "Come nel grembo / ed adesso in croce / ti chiama amore / questa mia voce. / Non fossi stato figlio di Dio / t'avrei ancora / per figlio mio". Signori, Fate voi. Ho esaurito la fantasia per elogiare questo disco. Tanto è vero che il penultimo brano, il più celebre e chiacchierato "Testamento di Tito" (il buon ladrone, cioè), è forse quello che gradisco meno degli altri (si fa per dire). Ma ascoltate attentamente i 10 comandamenti narrati alla maniera di Fabrizio de Andrè.

Questo disco mi ha fatto esultare, piangere, riflettere, bestemmiare. Mi ha insegnato un modo di amare. Su tutti i miei quaderni ci sono frasi tratte da qui, mi ha accompagnato da sempre. Mi rendo conto di aver scritto anche poco, malgrado in pochi (o forse no!?) saranno arrivati alla fine di questa pappardella. E chiamatemi anche scemo se vi dico che dopo aver litigato con la mia ragazza, vado a dormire sereno grazie a questa elegia.

Grazie Faber, tu non morirai mai.

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