Nel libro "Passaggi di Tempo" il più autorevole biografo e conoscitore della musica e poesia di Fabrizio De Andrè, lo scrittore Doriano Fasoli (*) distribuisce il contenuto del volume in due parti: la prima un'intervista più o meno (in)formale, la seconda una completa disamina dell'intera discografia di "Faber" (mi permetto di consigliarlo a chiunque: il costo non è proibitivo ed è ciò che di più completo esista attualmente sul mercato).

C'è una domanda ben precisa e mirata alla quale De Andrè risponde in modo un po' inaspettato:

"Te la sentiresti di dire quale dei tuoi dischi è il migliore?"
"Senza dubbio ti rispondo: La Buona Novella, è quello più ben scritto, meglio riuscito".
L'Autore (romano, studioso dei rapporti tra forme espressive, mass media e psicoanalisi tra gli altri interessi) intercala dicendo "lo sai che ero quasi sicuro che invece mi avresti risposto: Tutti Morimmo a Stento? Come mai questa scelta?"
Risposta "No, quello è un disco polveroso, barocco, e non dimentichiamoci che sotto il Barocco c'era il peso della Controriforma ..."

Come è noto, tra gli ascoltatori e amanti dell'Opera di De Andrè l'opinione prevalente è che "Tutti Morimmo a Stento" sia il "miglior album" di sempre. Forse è così. Sta di fatto che sarebbe impresa impossibile definire qual è il "miglior disco dei Beatles": "Sgt. Pepper's..." o il "White Album"? oppure "Let It Be"? Idem dicasi per tutti i Grandi: Lou Reed, Nick Cave, Rolling Stones, Lucio Battisti... e quindi lo stesso De André.

"La Buona Novella" è degli albums concettuali (il secondo) quello in cui la raffinatezza della scelta lessicale, la dimestichezza dello strumento retorico e la bellezza delle immagini evocate per via metaforica, metonimica, parabolica, si fonde alla perfezione con le storie raccontate, la storia raccontata (quella del Nuovo Testamento attraverso l'inedita ottica dei Vangeli Apocrifi) e, per via allegorica, ciò che rappresenta: la Storia tout-court dell'Umanità, sia nel rendere trasparente la filigrana dell'intreccio (i significati e valori egalitari e umani di fondo), attraverso il potere affabulatorio delle splendide immagini (la trama), sia con le suggestioni che irradiano dai suoni, e che sono più direttamente ricollegabili alla rappresentazione scenografica dello spazio in cui tale storia ha luogo. Una struttura e una poesia quindi, raffinate fino alla più sublime perfezione, compenetrate in una perfetta sintesi (come le superfici luminose e le ombre in una scultura), nonché un lavoro immane. Ma riuscito: La Buona Novella è uno dei massimi capolavori della Musica di ogni epoca.

Nell'edizione in vinile il lavoro si articola in due (convenzionali) "atti", scanditi dal lato A e lato B.

L'incipit con il coro "Laudate Dominum" (il Cielo) e l'excipit con "Laudate Hominem" (la Terra) quasi  filosoficamente (azzardando un po') "Agostiniani" racchiudono come due fluviali simbolici limiti la "mesopotamica" Opera che ne costituisce il tramite, attraverso il racconto, fiabesco, commovente ed esaltante.
L'intera opera, nella scansione teatrale dei quadri narrativi, rappresenta allegoricamente il tratto di collegamento tra la sacralità di Dio, fatto Uomo e morto sulla croce per mano degli altri uomini,  e l'essere Umano che nel corso d tutta la vita percorre un simbolico "calvario" che in ascesa lo porta a riavvicinarsi a Dio.

I temi sono dunque di una portata che più ampia non si può.

"L'infanzia di Maria", introduce  il personaggio-chiave: Maria, colei che sarà la Madre di Dio (il mistero sommo della Trinità viene già scolpito dai versi iniziali) viene rappresentata come una bambina di tre anni che a questa età viene condotta in un Tempio della Giudea. Nel ritratto si nota che (come avrebbe detto molti anni dopo De André stesso) i protagonisti perdono un'aura di sacralità per acquistare, forse una maggiore umanità.
Il tutto è avvolto a tratti da un'atmosfera fiabesca, come di sogno. Tuttavia, dalla tristezza (allusa) dell'austero Tempio (e di una vita monastica), a 13 anni l'adolescente Maria viene prima espulsa ("ma per i sacerdoti fu colpa il tuo maggio, la tua verginità che si tingeva di rosso"); quindi secondo l'usanza del tempo, si organizza una "lotteria" tra gli scapoli e i vedovi, per assegnare "in palio" la fanciulla.
La scelta cade su un anziano falegname, Giuseppe, connotato dalla tristezza, già stanco dalla vita, e con molti figli: commovente la delicatezza con cui "Faber" dipinge la gentilezza di Giuseppe "un reduce del passato, falegname per forza, padre per professione, a vederti assegnato da un destino sgarbato una figlia di più senza alcuna ragione, una bimba su cui non avevi intenzione"

Gli interludi corali movimentano lo scenario umano, facendo entrare anche le voci del paese.

Al termine Giuseppe dovrà partire "per dei lavori che lo attendevano fuori dalla Giudea; restò lontano quattro anni".

"Il Ritorno di Giuseppe",  che avviene dopo il "concepimento" (di cui si parlerà nel "sogno" successivo), è musicalmente accompagnato da arpeggi orientaleggianti (cui sembra quasi di sentire l'eco di un sitar), che ritraggono un'Asia Minore tra allegoria immaginaria e realtà del tempo: "davanti a te il deserto, una distesa di segatura, minuscoli frammenti della fatica della Natura", fino al culmine poetico che scuote l'anima di chiunque ascolti "gli uomini della sabbia hanno profili da assassini, richiusi nei silenzi di una prigione senza confini". La conclusione coincide con la confessione di Maria in lacrime del suo stato di gravidanza, senza che Maria abbia una chiara spiegazione ma solo "i resti di un sogno nascosto".

"Il Sogno di Maria", appunto, riprende lo stesso tema musicale ma in una chiave diversa, con un tocco più soave, quasi a sfiorare la delicatezza delle immagini: immagini splendide, inutili da raccontare, si provi a leggerne un breve resooconto "poi d'improvviso mi prese le mani e le mie braccia divennero ali, quando mi chiese 'conosci l'estate?' io per un giorno, per un momento, corsi a vedere il colore del vento". Il "Sogno" si dispiega come un volo in compagnia dell'angelo, "poi scivolammo oltre valli fiorite, dove l'ulivo si abbraccia alla vite", fino al suo brusco termine "le ombre lunghe dei Sacerdoti costrinsero il sogno in un cerchio di voci, con le ali di prima provai a scappare ma il braccio era nudo e non seppi volare, poi vidi l'angelo mutarsi in cometa e i loro volti divennero pietra, le loro braccia profili di rami, nei gesti immobili d'un altra vita,
foglie le mani, spine le dita
".
Poeticamente la tensione lirica si sposa con i suoni strumentali, prevalentemente acustici; stilisticamente i versi richiamano in più passaggi a Virgilio e ai Poeti Metamorfici dell'Antichità (le raffinatissime metafore vegetali alludono ad una identificazione dell'Uomo con la Natura).

"Ave Maria" è un altro canto corale, che chiude la fase del concepimento per dare spazio a una prosopopea dell'intero Paese, e a un immaginario dialogo con "un falegname", intento a fabbricare le tre croci all'indomani della condanna a morte di Dimaco, Tito e Gesù.

Nel vinile "Maria Nella Bottega di un Falegname" apre il lato B. L'andamento musicale cambia: compaiono percussioni, cori (molto PFM...) tastiere (un po' prog-rock) e su tutto quel flauto dolce con quel tamburo che resterà impresso nella memoria  nei secoli dei secoli...
Emblematici i versi "mio martello non colpisce pialla mia non taglia, per forgiare gambe nuove a chi le offrì  in battaglia ma tre croci , due per chi disertò per rubare, la più grande per chi guerra invitò a disertare"

"Tre Madri" (allegoricamente la figura delle tre donne dagli Affreschi delle Ville dell'Antica Roma alle sculture del Canova sarà praticamente ripresa da tutti gli Artisti figurativi) sono le madri di Tito, Dimaco e Gesù. Il primo è dei due ladroni quello che si sarebbe poi sulla croce pentito/convertito, Dimaco l'altro ladrone: i versi "con troppe lacrime, piangi Maria, quasi il ritratto di un'agonia, sai che alla vita nel terzo giorno il figlio tuo farà ritorno (...) lascia noi piangere un po' più forte, chi non ritornerà dalla morte" è un'allusione alla tematica del Sepolcro (il "terzo giorno" appunto Gesù sarebbe resuscitato), ma il quadro delle tre madri è in assoluto il momento più dolente e straziante "non fossi stato figlio di Dio, t'avrei  ancora per figlio mio".

Dopo l'ultimo interludio "Via della Croce", si giunge al "Testamento di Tito": il ladrone che attraverso la puntuale confutazione dei 10 comandamenti, giunge alla fine osservando Gesù per quello che è, a rendersi conto che non c'è distanza tra Dio e l'Uomo "guardate morire quel Nazareno, e un ladro non muore di meno" fino alla conversione e alla chiusura, e culmine dell'intero cammino dell'Uomo "nella pietà che non cede al rancore, madre ho imparato l'amore".

Non c'è altro da aggiungere, anche perché come ogni discorso che resta aperto, non sarà chi scrive a terminare il suo (modestissimo) discorso, ma forse chi seguirà il sole, "The Same Old Sun" che scompare, al termine, oltre le aspre dune della Giudea, per illuminare nuove e (si spera) meno tormentate esistenze.

 

(* si ringrazia Iside per questo riferimento, e questa scoperta)

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