Musica. Poesia.

Mi è sempre stato detto che sono due cose inavvicinabili, due elementi che non possono convivere, troppo diversi e contrastanti. Il rischio dell'avvicinarle, dicono, è quello di rompere il dorato equilibrio chiamato ARTE.

Quando dissi ad alcune persone di mia conoscenza che De Andrè era uno dei miei poeti preferiti, le loro facce da sole, furono il prologo di quello che dissero dopo: dall'alto del loro essere intellettuali benpensanti e tradizionalisti, guardandomi come si guarda Marzullo alle 2 di notte dopo una giornata di fatica, mi risposero "...De Andrè, si! Ha fatto canzoni carine, ma poesie...non scherziamo!"... Dall'alto delle loro risate di scherzo, mi hanno appunto trattato come un povero bimbo immaturo, convinto che il cantantino di turno sia il poeta della situazione. Al vedere le rughe dei loro volti di pensatori sovrapporsi tra loro in un sorridere stile "ti sto prendendo per culo", ho pensato: chi siamo noi uomini per dare un criterio assoluto, innegabile e per forza condivisibile di poesia???.. Cos'è la poesia???.. Cito una definizione da Wikipedia (non è che sia 'sta grande fonte, però in questo caso condivido): La poesia è l'arte di usare, per trasmettere il proprio messaggio, tanto il significato semantico delle parole quanto il suono ed il ritmo che queste imprimono alle frasi; la poesia ha quindi in sé alcune qualità della musica e riesce a trasmettere emozioni e stati d'animo in maniera più evocativa e potente di quanto faccia la prosa. Leggo bene???... "alcune qualità della musica"... Se avessi avuto un computer davanti, come aperta la pagina di Wikipedia proprio sull'argomento poesia, in quel momento (cosa che può tranquillamente succede casualmente, non pensate?) probabilmente gli avrei risposto così. Invece, ho risposto semplicemente dicendogli "Provate a prendere una poesia di Neruda (altro mio poeta preferito!) e mettetela su una melodia che accompagni lo scorrere ed il senso del testo, con le parole cantate cosi che non perdano la poesia che le caratterizza... Non pensate che unendo poesia verbale e poesia musicale, il risultato sia maggiore e migliore???"

Non pienamente convinti di questa mia teoria, hanno preferito nuovamente sorridere non più come a "ti sto prendendo per culo" ma come a "devi crescere, figliolo!", dal tono abbastanza saccente e fastidioso. Considerato che è possibile anche che io mi stia sbagliando di grosso e stia dicendo un cofano di cazzate, il loro comportamento tradizionalista, non è bastato a scardinare dal mio cervello quella che per me è una salda convinzione: Fabrizio De Andrè è stato un poeta, prestato alla musica, che ha saputo esprimere tramite essa, parole di una profondità pazzesca, metafore profonde e dal grande significato umano e sociale, che sarebbero degne di essere inserite nel programma delle scuole. Dire che Faber ha scritto TUTTE poesia, è esagerato, ma in tutti i suoi testi, anche quelli più ironici e dissacranti, c'è quel senso di profondità e quel gusto di riflessione, che per gli orecchi preparati e abituati è una goduria dei sensi.

Un album che per me è un collage di perle, è "Non al denaro, non all'amore nè al cielo", quinto album in studio di Fabrizio De Andrè, uscito nel 1971. Ispirato alla "Antologia di Spoon River" di Edgar Lee Masters, dall'opera De Andrè ruba i personaggi principali, che rinchiude nelle dolci prigioni sempre aperte della sua musica. Il disco è un insieme di storie, una raccolta di vissuti, la testimonianza di 8 vite ognuna caratterizzata da un aspetto diverso, ognuna differentemente felice, ognuna differentemente sofferente. Non c'è un narratore a tessere il filo di questo quasi concept, ma sono direttamente i personaggi a cantare la loro personale storia, a offrirci i loro pensieri, i loro dubbi, le loro vicende: sono loro stessi che soffrono, ridono, pensano e agiscono. Sono vivi, non rinchiusi a chiave nella canzone, ma che entrano ed escono dalle nostre orecchie, lasciando nella nostra mente idee, pensieri e riflessioni.
L'incipit, è "La Collina", dove sono tracciate poche pennellate di molte vite spezzate, chi un modo chi un altro, chi per amore chi per errore; vite che ora riposano sulla stessa collina, tutte ugualmente dannate di una vita persa chi a inseguire illusioni, chi a fare ciò che più amava. Dopo l'introduzione, c'è il primo personaggio, uno dei più ricorrenti nella lirica de andreiana: il Matto. Quello che la società non accetta, perchè è troppo volutamente lontano dai canoni non scritti della cosidetta "normalità"; uno che, convinto di riscattarsi agli occhi dei presunti normali, impara a memoria la Treccani, invano; uno che non sapendo a chi dovere la vita, la restituisce prima in un manicomio (non è poesia, questa?) e poi definitivamente a chi gliel'aveva data cosi deforme e anarchica, lasciando ai normali il ricordo di una pazzia libera, differente dalla loro costretta normalità.

Segue la storia del giudice nano: un uomo di bassissima statura, cresciuto fra offese e sfottò, a cui la gente si avvicina solo per sapere se la famosa regola della L è una leggenda oppure no, un uomo temuto, perchè un nano è una carogna di sicuro, avendo il cuore troppo troppo vicino al buco del culo (ma da dove gli venivano queste frasi????), un uomo solo che prepara la propria vendetta sui libri; una volta diventato Giudice, con la stessa crudeltà che aveva subito, manda nelle mani del boia con cinica facilità; ma alla fine, pur sempre uomo, è costretto a prostrarsi alla corte di un giudice di cui nessuno conoscere la statura: Dio. E proprio a causa di Dio, e del non credere in lui, che al successivo Blasfemo viene "cercata l'anima a forza di botte", per le sue idee, perchè afferma che l'uomo è costretto a sognare in un giardino incantino, a rincorrere l'illusione di un Eden inesistente.

Dopo questo, si apre la parte per cosi dire scientifico-medica dell'album: si comincia con un Malato di Cuore, uno che sogna di essere come gli altri, ma che non regge le corse negli sconfinati prati della giovinezza, costretto a guardare soltanto la felicità degli altri e a farne della propria solo un sogno; poi un Medico, voglioso di guarire dapprima i ciliegi che crede feriti, e poi gli uomini, eternamente feriti; per passare, dopo, al Chimico, che non comprende la reazione chiamata Amore, fino all'Ottico speciale, che vende ai suoi clienti lenti fuori dalla norma. Il tutto, poi, si conclude con la di Jones: suonatore di flauto, che in un vortice di polvere riesce a vedere la gonna di Jinny (Jinny nel testo originale, Jenny poi nel testo più noto modificato), che ha vissuto all'insegna di musica e libertà, che ha visto molte volte dormire e risvegliarsi e poi dormire di nuovo, come una melodia che si ripete e poi finisce; cosi come poi finisce il pentagramma della sua vita, dove lui si ritrova all'ultimo rigo senza, però, nemmeno un rimpiato. Ed è senza rimpiati che finisce questo disco, che sa di aver detto tutto quello che poteva e che si spegne, ma rimane, a suonare ancora nelle nostre emozioni.

Un disco mai vecchio, perchè racconta storie sempre attuali, un disco che non si perde nel tempo. Perchè come disse Nicola Piovani: "De Andrè non è mai stato di moda. Infatti la moda, effimera per definizione, passa. Le canzoni di Fabrizio restano."

Carico i commenti... con calma