Quella sera, al cinema Capitol di Milano, c'erano tutti. Era il 5 febbraio del 1960. Un film ambientato a Roma (ma che parlava dell'Italia, e quindi ben poco regionale) veniva proiettato per la prima volta in un cinema, molto grande, nel centro del capoluogo lombardo. A fine proiezione, ma anche durante, scoppiò l'inferno. Fellini era già un nome importante del cinema italiano, aveva alle spalle 2 Oscar ("La strada",1954; "Le notti di Cabiria",1957), e un paio di successi notevoli, tra cui "I vitelloni", 1953. Era fermo da tre anni, anni in cui, lottando con il produttore De Laurentiis, aveva scritto insieme a Flaiano e Tullio Pinelli la sceneggiatura della "Dolce Vita". Quella sera, si diceva, scoppiò l'inferno: l'opera non piacque ai benpensanti dell'epoca, ai democristiani bigotti (un giovane Oscar Luigi Scalfaro vergò un velenoso articolo, sull'Osservatore Romano, dal titolo "La schifosa vita"), alle signore impellicciate, ai vescovi e al clero che minacciorono di scomunicare chiunque si fosse recato al cinema a vedere, a loro dire, tale scempio, Fellini venne spintonato e ricoperto di fischi e sputi, a Mastroianni vennero riservati un paio di insulti tra i quali spiccò un "Comunista di merda!"; un signore, particolarmente alterato, chiese al regista un duello (un duello vero, con la spada) per ripagare le offese che, a suo dire, aveva subito guardando il film; l'arcivescovo di Milano, il futuro Papa Paolo VI si rifiutò di incontrare la troupe e un linciaggio che solo il pronto intervento delle forze dell'ordine riuscì a evitare. I membri del cast, alla chetichella, se ne scapparono fuori dal cinema e fecero ritorno a Roma (coraggiosamente, tre anni dopo, Fellini accettò di ritornare a Milano, in un cinema diverso, a presentare "8 1/2"). La frittata era fatta, il caso mediatico scatenato, e anche l'Italia timorata di Dio di inizio decennio capì che quel film era qualcosa di grosso e, sfidando la scomunica (tra l'altro impossibile, e già paventata dal mondo cattolico due anni prima per colpa dello scandaloso "Scandalo al sole") riempì le sale e fece de "La dolce vita" uno dei più grandi successi commerciali di tutti i tempi (si recarono al cinema, circa, 15 milioni di italiani) aprendo la strada alle grandi consacrazioni internazionali, tra cui la Palma d'oro al Festival di Cannes e le nomination all'Oscar (ne andò a segno una sola, ai costumi di Piero Gherardi). L'Italia è conosciuta nel mondo anche grazie a opere come queste, che lanciarono mode e modi di dire (paparazzo, dolce vita, Marcello, come here), fecero di Mastroianni uno dei pochi divi internazionali italiani, lanciò la prosperosa Anita Ekberg e diede a Fellini lo status di autore tout court che, nonostante i film precedenti, fino a quel momento non gli era ancora stato concesso.

De Laurentiis quando lesse la sceneggiatura sbiancò: troppa roba, troppa confusione. In effetti "La dolce vita" è un film che vuole raccontare il grande cambiamento che stava attraversando in quegli anni l'Italia, da terra contadina al boom economico, dalla povertà al benessere, dalle cose utili alle cose inutili. Il film non ha una vera e propria trama, procede per accumulo di situazioni: il protagonista, il giornalista Marcello, entra in una situazione, esce da un'altra e ancora ne rientra, come scrisse un critico: "[...] Marcello assiste a questa e a quella situazione, tutto materiale di lavoro, ma non lavora mai. Esce da una festa per andare a un incontro. Non caverà niente di buono. Ma c'è sempre l'episodio successivo". Roma, e l'Italia, sono visti come una Babele di lingue e voci, di persone e miti che nascono la mattina e finiscono la sera, di fenomeni, oggi diremmo social, belli che conclusi in meno di 24 ore (ed è una modernità incredibile quella di un film che, concettualmente, pare essere scritto oggi), una Sodoma e Gomorra in cui non esistono più né padri né morali, ma solo la voglia di stupire, andare oltre il consueto ma nulla, paradossalmente, stupisce più.

Le pubblicità dell'epoca, non sazie del successo che il film stava riscuotendo, parlavano di orgie e scene di sesso peccaminose. Ovviamente non c'è nulla di tutto questo, ma ci sono i festini, gli spogliarelli (castissimi) e dunque la rappresentazione di un qualcosa che effettivamente esisteva, quella di una borghesia annoiata mai davvero impegnata durante la giornata che la sera spuntava fuori e si dava ai piaceri goderecci della vita, tra (qualche) nudità e molta, moltissima noia. E lanciò Via Veneto che divenne, in breve tempo, il set di ogni cinematografia mondiale. In pratica, tutti i divi dell'epoca più che sulla Fifth Avenue sognavano di passare le notti a Roma nella Via Veneto che Fellini fece, meticolosamente, ricostruire in studio.

"Roma non era più quella di Antonio Ricci che cerca di rubare una bicicletta o di Umberto D che vive di elemosine, ma quella di Via Veneto, così come quella Roma, così come i film, erano dunque per Fellini un gioco continuo, la possibilità di ritardare le cose serie e l'entrata nel mondo dei grandi" (Pino Farinotti)

"Una materia da giornale in rotocalco trasfigurata in epica" (Morando Morandini)

C'è la lunga sequenza del pretestuoso miracolo della Madonna che fa accorrere mezza Roma alla corte di una ciarlatana con tanto di televisioni al seguito (e davvero qui siamo nel pieno dell'attualità); l'intellettuale Steiner incapace di comprendere i nuovi tempi e destinato al suicidio (che effettivamente compirà); e un finale tra i più poetici, e tristi, dell'intera storia del cinema. Su una spiaggia a Fregene, dopo una specie di orgia notturna squallida e volgare, Marcello rivede una ragazza, l'unica umana dell'intero film, che aveva visto, casualmente, qualche giorno prima. Lei gli dice qualcosa, lui, a causa del rumore del mare, non la sente. Finisce così, il nostro è votato a passare la propria vita tra uno squallore e l'altro, la bellezza non puo' toccarlo.

Un film magnifico e poetico, tra le prove più alte di Fellini e, personalmente, la mia preferita. Perchè parla di un tempo vicino a noi, vicinissimo, anche se sembra lontano, lontanissimo.

Carico i commenti...  con calma