I Fields of the Nephilim sono fra gli alfieri più credibili della scena goth-rock britannica degli anni ottanta. Formatosi nel 1984, il loro debutto "Dawnrazor" risale al 1987: questo "The Nephilim", targato 1988, è la folgorante opera seconda, ed insieme al valido "Elizium" (del 1990) costituisce una delle testimonianze più significative che la band ci ha ad oggi lasciato.

Rispetto all'ondata di band "dark" sbocciate, fiorite e in alcuni casi appassite a cavallo fra gli anni settanta ed ottanta, presentano una differenza fondamentale: il loro dark riscopre il rock, quello più genuino ed incontaminato, mentre le influenze punk e wave vengono drasticamente ridimensionate. La loro musica non sembra aver affatto conosciuto la rivoluzione post-punk, i suoni scarni e minimali, il crudo nichilismo nato e maturato nei sobborghi londinesi, ma si rivela pregna di un "maledettismo", di uno "sciamanesimo", di un "bellimbustismo " tipici del rock, ed in particolare, tipici della cultura rock americana. Una tradizione che affonda le radici nell'epicità del country, nella ruvidità del rock'n'roll più travolgente, nella disperazione del blues maladetto dei neri, nelle visioni decadenti di un Jim Morrison, nelle suggestioni spaghetti-western di un Sergio Leone (influenza riscontrabile anche nel look da cowboy post-apocalittici che i cinque musicisti decidono di adottare).

Il dark dei Fields of the Nephilim ha il sapore del deserto, e a raccontarcelo sono le chitarre di Paul Wright e Peter Yates, il formidabile basso di Tony Pettitt, la batteria dinamica e generosa di cambi di tempo di Don Wright. E naturalmente la voce grezza di Carl McCoy, un eroe romantico, un'anima inquieta, uno che ha veramente poco a che fare con le fregole di un Ian Curtis o di un Robert Smith, o con le nevrosi di un Rozz Williams: McCoy è un titano di pietra, una statua erculea, imponente, ma lacerata da profonde fratture. Ed in procinto di sgretotarsi.

"The Nephilim", più che un capolavoro, è da considerare come uno dei momenti cardine della cultura dark degli anni ottanta. Già dal titolo auto-celebrativo e dalla copertina che raffigura scarnamente il titolo dell'album si evince la ferrea volontà della band di lasciare il segno, imporre il proprio nome e marcare a fuoco l'inflazionato mercato discografico dell'epoca. "The Nephilim" è il manifesto dei Fields of the Nephilim e si merita di presenziare con orgoglio nella bacheca di ogni cultore dark che si rispetti, accanto a classici come "Closer", "Pornography", "First and Last and Always", "In the Flat Fields" e "Only Theatre of Pain".

Nella prima parte i pezzi scorrono potenti, ritmati, immersi in un sound caldo, viscerale, energico: epici arpeggi ed una solida ossatura ritmica sono il vento impetuoso che trasporta i dolori e le visioni notturne del carismatico McCoy, un vero trascinatore. Basti pensare all'incalzante "Endemoniada", che dopo un inizio tarantolato, si rivela una vera opener d'impatto, forte di potenti chitarre ed adombrata dal latrato cavernoso di McCoy che, fra sospironi ed urla demoniache, si impone fin dall'inizio alle nostre orecchie. Seguono momenti più pacati ("The Watchman"), furenti assalti rock'n'roll ("Phobia") e brani che spudoratamente strizzano l'occhio all'alta classifica ("Moonchild", il singolo piacione che ci riporta alle atmosfere dell'album di debutto).

Decisamente più interessante, a mio parere, è lo scorcio finale dell'album. Una desolante "Celebrate" (non altro che uno scarno arpeggio di basso infestato dal lamento alcolico di McCoy) fa da spartiacque fra la già citata prima sezione (decisamente più rock ed easy-listening) ed una seconda fase densa di atmosfere gotiche e teatrali. "Love Under Will" è una ballata tenebrosa, soffusa, onirica: il basso pulsante di Pettitt, l'arpeggio che emana desolazione e solitudine, i cori angelici che accompagnano il canto invasato di McCoy, tratteggiano luoghi di perdizione, di dannazione eterna, luoghi polverosi come un set di un film western, gelidamente sacrali come l'interno di una cattedrale gotica che invecchia nel deserto.

I canti gregoriani che chiudono il pezzo ci conducono direttamente alle porte dell'Inferno: la mastodontica "Last Exit for the Lost", ultra-classico della band. McCoy è uno sciamano evocatore di spettri, il suo è un requiem sanguinante destinato ad una platea di dannati. "Last Exit for the Lost" è la "The End" dei Fields of the Nephilim. Emozionante, nel finale, l'accelerazione ritmica che dissolve gli umori ipnotici e lisergici del pezzo, trasformandolo in una trascinante cavalcata apocalittica: in questi ultimi, epici, tragici minuti, nel crescendo declamatorio del folle cantante, nella potenza delle chitarre che crescono ruvide ed avvolgenti, c'è tutta la classe dei Fields of the Nephilim, il talento visionario di McCoy, la capacità della band di ricreare atmosfere tese e drammatiche.

"The Nephilim" non è un album impeccabile: non tutti i pezzi sono memorabili, e nel complesso potrà anche non piacere per la sua rozzezza, per la tamarraggine che trasuda in ogni sua nota, per il suo essere anti-estetico e volutamente (virilmente) eccessivo, sopra le righe. Del resto ci sono album che si meritano le cinque stelle perché sono "belli", perfetti e privi di sbavature, e ci sono album, invece, che si meritano le cinque stelle perché, pur non "belli", perfetti e privi di sbavature, significano qualcosa. "The Nephilim", senza dubbio, appartiene a questa seconda categoria.

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