L’avevamo conosciuta come una giovane e indomabile figlia dei fiori nel 2009, per poi ritrovarcela un paio d’anni dopo nelle solenni vesti di una moderna dama preraffaelita, ossessionata dall’acqua e da tutti i suoi significati metaforici e filosofici. Sembra, dunque, quasi scontato che il nuovo disco della band capitanata da Florence Welch si apra con una canzone intitolata “Ship to Wreck”, ideale ponte tra il precedente “Ceremonials” e il più recente “How Big, How Blue, How Beautiful”.

I collegamenti con il passato, sia sonori che concettuali, però, finiscono qui: messi nel cassetto i suddetti cerimoniali e accantonati, almeno per ora, i pensieri sulla morte e sull’acqua, anche le canzoni si spogliano di buona parte degli elementi che hanno caratterizzato il sound del gruppo fin ad ora; allo stesso modo i testi sono molto più personali e concreti rispetto che in precedenza (nonostante non manchino riferimenti biblico-religiosi a profusione), molto vicini a quelli di un classico break up-album, cosa che “How Big, How Blue, How Beautiful” per certi versi è. Il primo aspetto a rifletterne la natura sono proprio gli arrangiamenti, snelli e mai pomposi anche quando si fa uso di orchestrazioni e fiati, i nuovi arrivati tra le fila della Machine, e per la prima volta privi dell’onnipresente arpa. Molto meno imponenti, rispetto soprattutto a “Ceremonials”, sono anche le percussioni, qui mai invadenti e più vicine al blues e al rock anni Settanta-Ottanta che non all’indie-folk degli esordi. In parole povere, ci sono più R.E.M. e Stevie Nicks e meno Kate Bush, anche nella resa vocale, che vede una Florence più intima e vulnerabile che mai dosare i manierismi e la sua giunonica potenza a favore della pura e semplice interpretazione, tanto da cimentarsi addirittura in un paio di ballate dall’accompagnamento quasi minimale (“Various Storms & Saints”, con solo chitarra elettrica e cori a sostenere una performance sublime e sentita, e la quasi sussurrata “St. Jude”, sostenuta da una leggera drum machine elettronica). È stato poi compiuto un enorme passo in avanti sul piano della qualità media dei pezzi, molto meglio distribuita che in passato, con il risultato che a essere piacevole è il disco nella sua interezza e non solo i singoli: non ci sono infatti riempitivi o canzoni minori, tutte hanno una loro importanza e sono ugualmente piacevoli, dall’incalzante (e tuttavia radiofonico) baroque-pop di “Queen of Peace” e della title-track alla dimessa “Long & Lost”, da “Delilah” con i suoi giochi ritmici al grintoso blues della conclusiva “Mother”; da segnalare poi come tutte siano caratterizzate da una coerenza di fondo, a livello di suoni e arrangiamenti, che ogni tanto, sia in “Lungs” che in “Ceremonials”, veniva meno.

“How Big, How Blue, How Beautiful” si presenta dunque come il disco più onesto e sentito della band, che di nuovo non inventa nulla, ma si dimostra oltremodo brava in quel che fa, esprimendo questa volta un potenziale che in precedenza sembrava tenuto a freno e distaccandosi il giusto dalla formula che li ha portati alla ribalta. Un disco pop solido, coeso e ben fatto come raramente se ne sentono, che non ha nessuna pretesa se non quella di farsi ascoltare. E ci riesce magnificamente.

Carico i commenti... con calma