Ascoltando questo disco la mia memoria torna al 1987, ad un giovane e già grassoccio obiettore di coscienza, parcheggiato in una biblioteca comunale a scontare 20 mesi di vita da regalare allo Stato, senza aver commesso nessun reato. L'arrivo in biblioteca di una rivista musicale dal titolo che iniziava con "rock" (Rockstar? Rockland? Rock'n roll? Boh, robetta comunque) era attesa con trepidazione un po' da tutti noi, e da me in particolare, ansioso già allora di leggere recensioni, che poi non erano un granché. Una di queste mi dette una vera pugnalata: "Terra di nessuno" di Francesco De Gregori era massacrato senza ritegno, e soprattutto senza nessuna argomentazione, ma solo con una serie di "basta" "è finito" e slogan del genere, non molto diversi da certi post in grigio che infestano anche questo sito. Il 3 finale però non era un innocuo tre debaseriano, ma un micidiale tre in decimi, da maestra sadica che gode e pigia con la matita rossa mentre lo appioppa.

Dopo 18 anni mi sento di ristabilire un minimo di verità, per quello che possono contare queste righe. Dunque, forse una rivista "rock" avrebbe fatto meglio ad ignorare un disco del genere, di un autore da sempre più poeta che musicista e, nel caso specifico, intriso di una malinconia crepuscolare che non tutti sanno apprezzare. Nel complesso non si tratta di un capolavoro assoluto, ma contiene almeno due gioielli della maturità di De Gregori. Uno è la tenerissima "Pilota di guerra", ispirata a Saint-Exupéry, struggente e umana confessione della spettrale solitudine del pilota di un aereo da guerra che "sparge sale sulle ferite delle città", più in generale emblema della solitudine assoluta dell'uomo. La musica è delicata e commovente come si addice all'argomento. L'altro è "Mimì sarà", dedicata a Mia Martini, ma non solo, direi rivolta a chiunque abbia attraversato quello stato d'animo che ti piega i ginocchi, che fa sì che "tu ti affacci da dietro quei vetri che sono i tuoi occhi", che i medici chiamano cinicamente depressione. La tristezza del testo e della musica non toglie comunque la necessità, quasi l'obbligo di farsi forza, se non altro "per spiegare alla figlia che domani va meglio, vedrai cambierà". Le lacrime sono quasi sicure.

Musicalmente la traccia rock del precedente "Scacchi e tarocchi" è quasi del tutto svanita, anche se i musicisti sono più o meno gli stessi: è sempre la banda di Ivano Fossati, ma non suona il rock, come la logica vorrebbe. Giusto "Il canto delle sirene" ha un ritmo e delle sonorità abbastanza dure, accompagnate da un testo abbastanza enigmatico, pieno di sete di avventura, di fuga da una dura realtà attraverso il viaggiare per mare. Più ordinaria "Capataz", almeno musicalmente: le parole invitano ad una certa speranza, oltre che ad un certo impegno: "Quante persone che non contano, e invece contano, e si stanno contando già". "Pane e castagne", segnata da cima a fondo da tristi e metalliche tastiere elettriche, è un patetico quadro di povertà e di rassegnazione ad un destino già deciso da altri. "Nero" è un tuffo in un realismo totale e crudo, dylaniano, qui ancora nascente, ma che a poco a poco finirà per imporsi nel De Gregori attuale. Il nero è brutalmente scaricato "dalla periferia del mondo a quella di una città", e sa bene quali sono le difficoltà che lo aspetteranno, ma accetta il suo destino con il riso sulle labbra, come sottolinea anche la musica, brillante, quasi un allegro reggae. L'uomo con le "Spalle larghe" è una versione più moderna e anonima di quello che cammina sui "Pezzi di vetro": forte, rassicurante, dà così tanta fiducia da poter "ritornare sporco di rossetto, tanto ha una faccia che non tradisce". "I matti" non hanno il cuore "o se ce l'hanno è sprecato, è una caverna tutta nera", verso che da solo definisce il pauroso vuoto della loro anima. Chiude un po' inatteso un allegro "country-western", "Vecchia valigia", oggetto-simbolo di lontani viaggi e ricordi.

Ottimo disco, che allora non meritava di essere stroncato, e oggi non merita di essere dimenticato.

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