Era il lontano 1976 quando Guccini pubblicò questo album, che trovò luce dopo un paio di anni di gestazione, dato che la stesura dei primi brani risale al '74. Un disco variegato che, a differenza delle ultime produzioni, non segue un filo conduttore che fa da legante tra i pezzi.

Si parte con "Piccola storia ignobile", un brano sull'aborto, cupo, triste, impregnato di sofferenza, dove traspare chiara l'indifferenza che l'opinione pubblica spesso riserva a queste tragiche "storie di vita quotidiana". Un brano che per stessa ammissione dell'autore risultò di difficile stesura, data la delicatezza dell'argomento. Ne esce la narrazione di una vicenda che rappresenta la sintesi di tante storie sul tema con le quali Guccini é entrato in contatto.

Il secondo brano, "Canzone di notte n.2", é una canzone che odora di notte, lucido dipinto dei tipici vizi notturni gucciniani; il vino, gli amici, le canzoni,... Ma non solo goliardia nelle sue parole, anche riflessioni sull'esistenza, sul pensiero, sulla politica, riflessioni che comunque ed inesorabilmente si scorderanno "...che poi infine tutti avremo due metri di terreno".

Poi arriva "L'avvelenata", un pezzo che diventerà uno dei cavalli di battaglia del cantautore, soprattutto grazie alle atmosfere di rivoluzione contro gli stereotipi che il testo suscita. Un manifesto di protesta contro l'epoca e contro chi ha voluto vedere in Guccini un profeta, un dispensatore di verità, cantato, quasi urlato, da chi invece si considera solo un cantastorie da osterie.

In seguito l'atmosfera si fa più ludica, meno seriosa, forse più sbarazzina e infantile. "Via Paolo Fabbri 43" é un blues strascicato che sa di beffa, una risata, uno scherzo, una presa in giro. È ironia su quello che l'autore potrebbe fare o potrebbe essere, oppure un elenco di scuse per non dover fare od essere.

La quinta canzone é la mia preferita. "Canzone quasi d'amore" é un brano di un'emozionante dolcezza. Non una dedica d'amore a qualche donna immaginaria, ma un messaggio, un tentativo di spiegare il perché di certe scelte, di certi atteggiamenti assunti in alternativa ad altri, che condizioneranno per sempre le nostre vite. È la ricerca di vestire di concretezza le illusioni che ognuno si costruisce, quando in fondo "...vivere é incontrarsi, aver sonno, appettito, far dei figli, mangiare, bere, leggere, amare, grattarsi". Normalità...

La conclusione dell'album é nelle mani de "Il pensionato", un lucido scorcio sulla quotidianità di un anziano che affronta il viale del tramonto. Uno splendido e poetico ritratto della vita di un personaggio tra i tanti che stanno a cuore a Guccini, un escluso, un emarginato, non per scelta, ma per circostanze sociali. Un diverso non in quanto tale, ma perché residuo di una cultura che inesorabilmente scompare. E come spesso accade nei brani di questo stampo, l'autore si specchia nel personaggio e rivede un pezzetto di sé.

Un disco che nella sua diversità di intenti risulta completo, il ciclo riesce ad ogni modo a chiudersi. Musicalmente forse non entusiasmante, pur con qualche buono spunto, dati anche gli apporti dei musicisti che accompagnano Guccini (su tutti gli eterni Bandini, Tavolazzi e Tempera).
In ogni caso la "letterarietà" dei contenuti regge da sola l'intera opera, che oltre che ascoltata va in qualche modo letta ed interpretata.

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