Dicono si dovesse fare per contratto. Così come dicono che potesse bastare la più umile delle raccolte o dei live. O, magari, la più disarmante accozzaglia di successi risuonati.

Lui Francuzzo, ha fatto tutto -e niente- di ciò.

Ha confezionato un disco che, lo diciamo subito, si ascolta bene, benissimo, dall'inizio alla fine e più volte.

Non è la prima volta che mischia cose vecchie e nuove (già "Mondi Lontanissimi" era così, ed era bellissimo), ma è la prima volta che mescola tutti i suoi stili e le sue esperienze "leggere", creando una sorta di "best/inedito", abbastanza singolare e decisamente riuscito.

Anzitutto la title track, sulla scia -per lui tanto felice quanto ridotta numericamente- delle invettive.

Ideale seguito di "Povera Patria", "Inneres Auge" fotografa perfettamente il tempo che ci troviamo a vivere.

Se "Povera Patria" trasudava, in ogni triste nota ed in ogni parola studiatissima e piazzata, il disincanto drammatico del declino della cosiddetta prima repubblica, del pentapartito e della peggior DC, questa "Inneres Auge" fotografa spietatamente, in modo geniale e perfettamente studiato, l'epoca berlusconiana. Senza sconti e senza ermetismi o sofismi. Qui tutto è chiaro, nulla è casuale, tutto è riconosciutissimo e frutto della grandiosa, austera ed incrollabile tara che il Nostro ha ben chiara in testa. Non vuole lasciare spazio ad interpretazioni alternative, buoniste o svianti. Qui, ripeto, non vi è alcun ermetismo. Il pezzo è chiarissimo ed è bello, sia letterariamente che musicalmente, cosa rara per le invettive e soprattutto per i brani così "immediati".

Anche il video è altamente consigliabile. Per ovvi motivi non lo vedete mai in tivù, così come il brano passa pochissimo nelle radio (solo, ovvio, nelle solite) e per nulla in televisione, in alcuna forma (quante volte si sente, che so, il pessimo Mika in sottofondo ad un qualunque servizio di tiggì o robacce simili?).

A conferma.

Per il resto nel disco si susseguono cose vecchie e nuove, cosiddetti "lati b" (anche se materialmente purtroppo ormai inesistenti), episodi alti ed altri altissimi (la versione di "Tibet", per dirne una, è da brivido).

Tornare su brani non proprio famosissimi è una scelta in sé saggia, anche se devo dire (forse per eccesso di affezione verso gli originali) che non mi trovo del tutto d'accordo sulla superiorità, da molti dichiarata, di queste versioni. Fatto sta che Battiato non riesce comunque a non emozionare, non sa e non vuole banalizzare e crede, sempre, in quello che fa. E anche risentire la rilettura odierna di pagine passate, con lui sembra avere il senso che con altri autori, quasi sempre, non ha avuto.

Vola via bello, questo disco dalla durata antica (la vecchia cassettina da 46...), e lascia un bel sapore. Un bel retrogusto.

L'ultimo disco di Battiato, finora, è e rimane lo splendido ed emblematico "Il Vuoto". È l'ultimo vero progetto, l'ultimo lavoro con la "L" maiuscola. E penso che anche lui converrebbe con quest'assunto. Ma questo piccolo episodio, che si trova però ad ospitare un brano inevitabilmente destinato a fare la storia, è davvero un piacere inaspettato.

Una luce piacevolmente triste, ma fortissima, nel panorama ormai cadaverico del cantautorato nazionale di grande diffusione.

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