È una di quelle sere che sto da solo, non ho voglia di uscire e non invito nessuno a cena: una di quelle sere che non vogliono dire niente. Assaporo la mia solitudine buona e cattiva: nello stesso tempo il piacere e il peso del silenzio, mio e intorno. Alla tv non mi avvicino nemmeno. Provo a leggere, ma per quanto buono sia il libro (o addirittura ottimo, come in questo caso: Pessoa, "Il Libro dell'Inquietudine di Bernardo Soares"), mi ritrovo a sfogliarlo senza cogliere il senso delle parole che ci stanno scritte. Allora chiudo il libro e mi piazzo davanti al mio vecchio stereo, a scegliere la musica che accompagni questo strano stato d'animo, che in realtà non è nulla, è una metà strada, e fa sì che io mi guardi come guardassi un altro, e quello che vedo non mi dice niente.
E dunque, stasera tocca a un disco che è un po' come me stasera, un album che, incredibilmente se si pensa all'autore, non dice niente. Franco Battiato, "L'ombrello e la macchina da Cucire". Disco che ha un'indubbia importanza storica, poiché è la prima fatica scritta a quattro mani da Battiato col filosofo Manlio Sgalambro, e da allora i due saranno sodali inseparabili: oltre a questo, la coppia ha finora dato vita a lavori ottimi ("L'Imboscata" e l'ultimo "X Stratagemmi"), un album meno riuscito ("Ferro Battuto"), e un disco superbo ("Gommalacca").
"L'Ombrello e la Macchina da Cucire" esce nel 1995, due anni dopo l'ottimo "Caffè de la Paix", e in un certo senso ne rappresenta la nemesi. Mentre infatti il predecessore è un album molto omogeneo nei temi e nele atmosfere, intimo e personale, tutto incentrato sull'interiorità, che sa arrivare al cuore dell'ascoltatore (trattandosi di Battiato, ovviamente passando dal cervello e non dalla pancia), questo lavoro è invece assolutamente eterogeneo e impersonale, un album spiazzante, freddo, che rimane distante, che l'ascolti e non ti resta nulla. Non ha alcun senso analizzare le canzoni una per una: sembra quasi di ascoltare qualcuno che legge (o meglio canta, peraltro come al solito benissimo) l'enciclopedia, ed è un ascolto per nulla coinvolgente, con una marea di riferimenti e citazioni da ogni campo dello scibile umano: la scienza con il teorema adiabatico e i moti particellari di Robert Brown; la filosofia con Guglielmo di Ockham; la musica con Gesualdo da Venosa, Baldassarre Galuppi, Charlie Parker e la sua Ornithology; l'illumimismo con Lessing. Moltissimi anche i riferimenti indiretti: T. S. Eliot, Kant, Hegel, Pascal, e chi più ne ha più ne metta (e chissà quanti che non sono minimamente in grado di cogliere).
Un'eruzione di puro nozionismo: per citare un verso della title track, viene in mente un cervello troppo pieno che esplode di colpo, schizzando all'impazzata nomi e teorie e riferimenti che vi stavano accumulati. Insomma, la netta impressione è che questo sia un disco in qualche modo di maniera, niente altro che un esemplare esercizio stilistico, perfetto nella forma, nelle musiche (per lo più molto vicine alla classica), nella metrica; ma, proprio in quanto puro esercizio, assolutamente senz'anima. Resta una domanda, anzi LA domanda: perché? Che senso ha questo disco? Ho troppo rispetto per l'intelligenza artistica e personale di Battiato per credere che si tratti di un banale scivolone, che quest'album sia stato dato alle stampe per caso, o peggio per urgenza di vendite. Né penso che lo stesso Battiato lo ritenesse e lo ritenga un lavoro memorabile (prova può esserne che non ho mai sentito né direttamente né sulle varie raccolte live alcuno di questi brani eseguito in concerto). Del resto, già il successivo "L'Imboscata", per non parlare di "Gommalacca", dimostrano che la coppia Battiato-Sgalambro è capace di ben altro.
E dunque la conclusione obbligata è che questo album sia volutamente quello che è, un nulla formalmente impeccabile, e in questo è un album perfettamente riuscito. Azzardo un'ipotesi: che sia il segno, volutamente nettissimo, della fine di una fase (che in realtà dava già segni di cedimento, di autoesaurimento) del percorso creativo e artistico di Battiato; porta sbattuta, chiusura brusca di un periodo per aprirne un altro, un altro tipo di ricerca, non più in solitaria e non più principalmente interiore, su sé stesso (anche se in raltà quest'indagine personale Battiato non l'abbandonerà mai del tutto), ma maggiormente rivolta all'esterno, alla società umana e al rapporto degli uomini gli uni con gli altri (ed è a questa nuova fase che appartengono canzoni come "Strani giorni", "Shock in my Town", "Il Ballo del Potere", "Ermeneutica").
Una cosa è sicura: ci vuole coraggio a pubblicare un disco del genere.
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