وَلَقَدْ خَلَقْنَا ٱلْإِنسَـٰنَ وَنَعْلَمُ مَا تُوَسْوِسُ بِهِۦ نَفْسُهُۥ ۖ وَنَحْنُ أَقْرَبُ إِلَيْهِ مِنْ حَبْلِ ٱلْوَرِيدِ
Antica stuoia, giammai abbandonata, di trama ed ordito cadmio indaco e cinabro.
Ascolta, bronzea malachite, statua di sabbia d’argilla e di bitume.
Attendi, alfine, la tua spoliazione.
Un rituale per percussioni tastiere e antri stalagmitici ed umbratili.
Svuotati le tasche ed il torace.
Lascia qui quel che possiedi, senza eccezione.
Quel che possiedi non è quel che qui lascerai: un monile risplende nelle tue mani vuote.
Questa voce di Shahrazād, afona e taciturna, dice di notti e di stelle pestate in un mortaio.
Attingi, rimestandovi appena, per l’inesausto tuo desìo.
Mai s’interromperà, questa ventata mista a sabbia e saliva —di sangue e di sacertà— che ha nome rivoluzione.
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