1.) L’idea platonica

Frank Vincent Zappa è stato padre e ”madre dell’invenzione” della musica totale, concependo la fusione completa di Rock, Jazz e Musica Classica. È stato profeta ed alchimista della musica libera, fautore di un’arte scandalizzatrice, irriverente, satirica, diretta a promulgare una anatomia patologica della società. La novità del suo stile, in ambito Rock, è stata anche il presentarsi soprattutto come compositore, dando rilievo molto più alle partiture che all’aspetto della performance. Come sir Duke Ellington, il ragazzo di Baltimore, poi, dirige (tutto e) tutti, ma nel rispetto delle qualità personali dei suoi musicisti. Molta enfasi l’ha sempre posta sui suoi testi satirici, centro dell’evoluzione delle sue suite aperte e complesse.

2.) The Importance of Being Ernest/Frank.

Zappa non ha epigoni. Eppure, normalmente, tutto quello che nella Popular Music è stravagante, bizzarro, viene subito additato come zappiano. Lo zappismo è una religione. Quella di chi crede nell’importanza di essere Franco.

3.) Time.

Absolutely Free, pronto nel novembre del 1966, licenziato a maggio 1967, dalla Verve, è probabilmente la prima opera Rock della storia. L’anno prima, giugno ’66, era stato pubblicato l’esordio, il concept e doppio “Freak Out” (prima di “Revolver” e di “Velvet Underground & Nico”, prima dei Jefferson Airplane e di Jimi Hendrix, prima del Miles elettrico!). Col successore, il collage sperimentale “We Are In It Only For The Money”, del settembre 1968, compone una superba trilogia psichedelica.

Le Mothers of Invention, intanto, si sono allargate, con musicisti di estrazione Jazz, Ray Collins (Voce), Roy Estrada (basso), Jimmy Carl Black (batteria e tamburo), Don Preston (tastiere), Bunk Gardner (sassofono), Billy Mundi (percussioni). E Frank (chitarra).

4.) Plastic City/Plastic People/Plastic Music

Zappa, che schernisce gli hippies di San Francisco, la freak scene e gli stessi Freaks losangelini, si colloca al di là di questi e di quelli. Se irride, poi, e sberleffa i potenti, i politici, le multinazionali, l’autoritarismo, di particolare ha, che se la prende anche con l’uomo comune. Vuole operare una coscientizzazione, attraverso la sua caustica satira sociale. Los Angeles era “Plastic City” e Barbie (la Fashion Doll) la forma più umana. Frank, rigetta la militanza politica negli anni controversi di Johnson, prima ancora del difficile ‘68; altresì non lo soddisfano le istanze ingenue, ciniche, dei “frichettoni arrabbiati”. Il cuore di pietra, indurito, di biblica memoria, nello Zappismo, è evidentemente un cuore di plastica. Un surrogato. Una protesi. Quello che manca, ad ogni uomo è, allora, come sempre, un cuore di carne. Almeno, un cuore di bue, direbbe Don Van Vielt. Dunque basta plastica, torniamo all’esistenza. Un esistenzialismo paradossale, da giullari che parlano con i ladri. Attraverso un nuovo dadaismo, l’arte rivela la vita. L’opera buffa è il nuovo oracolo delfico. Senza assumere questa presa di posizione, certo un po’ istrionica, ma non fine a se stessa e vuota, se non il messaggio zappiano, quantomeno l’album “Absolutely”, nella sua bellezza e ricchezza, ci sfuggirebbe.

5.) Help I’m a Rock

Zappa è Rock. Zappa è contro. Avete presente Goucho Marx, che canta “I don't know what they have to say, It makes no difference anyway, Whatever it is, I'm against it”? Così il nostro. Zappa è contro e dentro il suo tempo. Zappa è contro e dentro tutta la musica. No si lega alla sua generazione, non sta sotto nessuna etichetta. Non concepisce barriere stilistiche tra Rock, Pop, Rhythm’n’Blues, Jazz e musica colta, collocandosi all’origine di tutte le future contaminazioni.

Zappa se la prende ed è contro: la sua generazione, la musica a comparti stagni, l’ingenuità e il cinismo dei freaks, l’ingenuità e l’onirismo degli Hippies, il misticismo della psichedelia, il divismo del Rock, è contro il proibizionismo, ma è anche contro la droga, contro il perbenismo, contro l’ipocrisia ovunque si nasconda, contro la stupidità, contro la massificazione, contro il vitellone dorato del denaro, e contro il capitalismo.

La travolgente parodia messa in scena in “Absolutely Free”, che riutilizza i clichè musicali, i jingle pubblicitari e allestisce gag di personaggi vacui come nelle commedie Plautine, vorrebbe cacciare i giovani fuori dal sistema, indurli a sentire l’esigenza di liberarsi dalle mode e dall’esistenza ridotta alla mera dimensione consumistica. Essere per essere, allora, cosa? Franchi. Schietti. Liberi. L’importanza di essere franco. “Libero di testa e libero di vestito”. Attraverso la creazione musicale, il nostro, persegue l’obbiettivo di Nietzsche, di fare dell’uomo qualcosa di scomodo. Senza arrivare al totalitarismo e ad un esasperato razionalismo. Più semplicemente, e bellamente, diverticchiandosi in parte e liberandosi da pregiudizi, paure e maschere. L’unica via è la libertà. “La libertà. Un doveroso pericolo in verità” canta G.L. Ferretti. Quella roba lì. Ok. Del resto, il buon vecchio Frank, in quegli anni selvaggi, l’ha sempre sostenuto che la musica è il meglio. Tutto quello che facciamo è intessuto di musica. La musica assolutamente liberante è il meglio. Senza cadere in un’altra ideologia. Solo un’istanza espressiva. Bravo Frank! Bravo Vincent!

6.) I brani che compongono l’album, l’album che compone i brani. Pastiches.

Da testi, contesto e scopo, passiamo ai brani “musicali”. Ah, caro IlConte/IlComte @[IlConte], questa musica, ha proprio uno scopo, non è l’intrattenimento, che sia questa la famigerata “indipendenza”? Lo chiederemo a Pin @[Pinhead]. Ma credo di sì. Nei brani serpeggia una febbricitante corsa al ritmo. A parte qualche spiacevole censura “linguistica” della casa madre, l’amore di Zappa per il rumorismo colto di Edgar Varese, per il Rhythm’n’Blues, per le musiche dei cartoni animati di Spike Jones, porta davvero molti/tutti frutti. Un bricolages musicale, surrealista, dadaista, liberatorio. Zappa punta molto in alto e lontano. Pronto a mingere fortissimo. Tant’è.

Si parte con due overure intriganti, “Plastic People”, un manifesto delle intenzioni, e l’encomio de “Il Duca Delle Prugne”, che deflagrano, come spesso succede nell’LP, in ritmiche spasmodiche, frenetiche, riluttanti ad ogni convenevole, isteriche, tra arresti improvvisi e frequentissimi cambi di tempo. Soverchiano le forma canzone, ne fanno una apoteosi alla rovescia. Con clangore. Tra divagazioni di un’orchestra impazzita, spiluccando Easy Listening, avvertiamo fughe “progressive”.

Il basso è pulsante, le tastiere tracciano miniature organistiche, la chitarra caustca manda colpi di stiletto, la percussività è rapida e tonante. Nel Free Progressive strumentale “Young Pumpkin” svettano il sax e l’armonica a bocca. In “Call Any Vegetables”, Zappa chiama in adunata tutte le verdure, le sole ad assicurare regolarità all’organismo. E questo è l’indice migliore dello stato umorale, l’indicatore perfetto dello stato di felicità di ogni persona. Ed è vero! Qui ricordiamo, con Frank, che il Rock non è stordimento, ma è una missione. Il rifiuto delle droghe zappiano è geniale! Serve ad avere un controllo totale dei processi artistici. E questo produce una musica da sballo. Una vera figata! Il contrario è facilmente falsificabile. E ciao!

Ci sono poi “Uncle Bernie’s Farm”, un blues con vibrafono, coretto ubriaco, e il quadretto Pop/Beat Yeah Yeah della mitica “Suzie Crema di Formaggio” (chi non l’avrebbe voluta incontrare almeno una volta?). Poi, le bizzarrie di “Brown Shoes”, un incredibile andarivieni rapido e tentacolare, di motivetti e canzoni, in un collage narrativo e sonoro, frullati ed implosioni di bande paesane, Free Jazz, filastrocche, avanguardia informale, classica con Straviskij, Country, Easy Listening, Etnica (indiani pellirossa), Musichall, Cabaret, balletto. Par di correre in un labirinto rettilineo, musicalmente intricatissimo. Probabilmente fu ispirato da Virgin Forest dei Fugs di Second Album (1966). Con cambiamenti, però, più repentini, canzoni più definite, non solo atmosferiche, più complesse ed articolate. E’ come se l’Enciclopedia di Diderot e D’Alambert fosse riscritta musicalmente da nuovi dotti e sapienti, chiamati Wowee, Suzie e Duke (of the Prunes). Chiude l’enorme carosello, un finale sciolto, “reintegrato nel sistema”: in un grande magazzino, rumori di registratori di cassa, un piano cocktail loungue, il crooning svogliato e maliardo di Ray Collins, malinconico epitaffio sul trionfo del capitale. Con tanto di gelatina. Non è definitivo. Però l’America, l’american style of life, bulli e pupe plastificate, per ora brinda e se ne va a casa. Boriosamente.

7.) Un altro finale.

Album travolgente, onnivoro, avventuroso, devastante, compatto. Un vertiginoso succedersi di idee, un capolavoro e un anti-capolavoro al contempo; quello del capitano sarà (solo) l’anti-capolavoro (per eccellenza). Un ribollire magmatico. Un tirar merda istruttivo, catartico. La necessità, madre dell’invenzione. Un action “cut up” painting, surreale, che squarcia la musica, liberata, veloce, a perdifiato. Dal Doo Wop alla Classica d’Avanguardia. Tutto. Ogni cosa. La musica assolutamente libera, quella sciolta da tutti i legami. Nella mistica ebraica Dio è “En Sof”, sciolto da ogni legame, “assoluto/assolutamente”. Senza confini. La musica absolutely free è senza confini. È, in qualche modo, divina.

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