Da quando, nel 1991, vinse l'Oscar per miglior film straniero con Mediterraneo, Gabriele Salvatores è entrato nel gotha dei registi italiani contemporanei.

Ma il tempo è passato e il nuovo millennio è iniziato. Il nostro premio Oscar, dopo Puerto Escondido (1992) ha deciso di lasciarsi alle spalle il tema della fuga dalla realtà per volgere lo sguardo verso il mondo dell'adolescenza. Così, pellicola dopo pellicola, ha osservato questa età di passaggio, cercando di coglierne le crisi, le contraddizioni e gli ostacoli di cui è costellata nel momento in cui ci si mette in relazione con il proprio io, inter pares e con gli adulti, vicini e lontani.

Dopo il celebre Io non ho paura, l'ottimo e drammatico Come Dio comanda e l'esperimento (per il cinema del bel paese) de Il ragazzo invisibile, Salvatores, nel 2019, gira Tutto il mio folle amore.

Tutto il mio folle amore: vi ricordate di Franco e Andrea Antonello, padre e figlio che intorno al 2010 presenziarono in numeri salotti televisivi per raccontare la loro storia? Sì? Bene, il film prende spunto dalla storia di un loro viaggio per raccontare...

...un road movie sui generis. Il film sarebbe tutto nella storia di una fuga, quella del sedicenne Vincent, nascostosi nel vano posteriore dell'auto del padre, Willy, e di un inseguimento, quello fatto dalla madre, lungo le strade della Slovenia e della Croazia, e dal suo compagno, il signor Mario Topoi. Sarebbe, dicevo, in quanto questo è anche il racconto di un (temporaneo) abbandono del nido materno da parte di Alex, il racconto dell'espiazione di un senso di colpa, il racconto della conoscenza dell’altro, ed infine il racconto della scoperta improvvisa della felicità e di un senso per delle vite che un senso l’han perduto…

È Willy (Claudio Santamaria) colui che "scopre improvvisamente la felicità”, lui che era scappato prima della nascita del figlio, lui che non si era mai fatto vivo prima negli ultimi sedici anni. Willy era un immaturo e lo è ancora, divide le sue attività in fasi, per cercare di mettere un ordine alla sua vita, e questo viaggio è un momento di maturazione anche per lui. Sono Elena (Valeria Golino) e Mario (Diego Abatantuono) coloro che hanno cresciuto, giorno dopo giorno, Alex. In una lotta continua e incessante per dargli affetto e calore, ma contemporaneamente autonomia. Ogni strategia è sperimentale. La vita è ancora perlopiù un mistero, perciò, se funziona, in casa ci si racconta Edgar Allan Poe per stare tranquilli, per stare in pace con il mondo, la storia di Arthur Gordon Pym.

Per stare tranquilli, perché le giornate non sono molto tranquille in famiglia, da quando a Elena è stato detto: "Suo figlio è probabilmente autistico". E le strategie funzionano e non funzionano, e nel film, in questo viaggio si vive un intervallo, un sogno poetico… e in questo sogno per Vincent funzionano la strategia di Willy di dividere le attività in tre fasi e quella di parlare con lui attraverso un computer. Alleggerisce l'ansia di Vincent. E così Vincent cresce… E con lui cresce Willy… E, senza Vincent, crescono anche Mario e Elena...

"Basta che funzioni", diceva Boris Yellnikoff. Perciò forse bisognerebbe insistere sulla strada abbozzata durante questo film, la strada provata da Vincent, Willy, Elena e Mario. Convivere realmente con questa sindrome.

"Trenta persone che dedicano un giorno al mese a testa a un ragazzo autistico", di questo ci sarebbe bisogno, consiglia Franco Antonello, e io, che ho conosciuto solo per qualche ora al giorno Alex e la sua penna straordinaria, su questo argomento posso solamente ascoltare e prendere appunti.

Questo film, invece, fa quello che può fare un film: raccontare una storia, parlare di ciò che troppo poco si conosce, esplorare un senso di colpa e lasciarti il magone dentro. Il resto, nella vita, spetta ad ognuno di noi.

Voto del recensore: 3,5/5

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