Una bella immagine di Moore presa dal soffitto, mentre in studio imbraccia la sua chitarra preferita ossia la Gibson Les Paul Standard appartenuta a Peter Green suo idolo, introduce la seconda pubblicazione del chitarrista nord irlandese dopo la sua “svolta” musicale.
Battezzata un paio d’anni prima (1990) con un’opera dal significativo titolo “Still Got the Blues”, la suddetta svolta aveva visto il musicista smetterla di competere coi vari Van Halen, Sambora (Bon Jovi), George Linch (Dokken) eccetera.
La nuova ispirazione lo aveva portato a compiere un salto all’indietro di almeno vent’anni, facendolo tornare agli eroi di gioventù vale a dire i grandi bluesmen neri degli anni cinquanta e sessanta, e parallelamente ai pionieri del British Blues di fine anni sessanta e inizio settanta.
Rispetto a tutta quella bella gente (da Albert King a Steve Ray Vaughan, diciamo) Gary aveva da spendere un paio di caratteristiche sue peculiari che in effetti lo portarono a primeggiare fra essi, tanto da farmelo preferire a tutti quanti i gli ispirati bluesari di seconda generazione.
La prima virtù era l’energia, pari se non superiore a quella di Steve Ray. Gli permetteva di dominare le sei corde, tirarle allo spasimo, “lavorarle” con quelle sue ditone così grosse da nascondere completamente i tasti su cui andavano ad agire. E’ bellissimo ascoltarlo prendere uno dei cantini dopo avere sfregato senza pietà, con una pennatona gigante, tutte le corde sovrastanti generando un attacco sonorissimo. E poi quel suo indomito vibrare le corde, intonatissimo, in totale controllo tecnico pur nel trasporto assoluto dell’esecuzione.
L’altra peculiare dote era la tradizione irlandese che pervadeva la sua ispirazione, donandogli un’unicità ed un fascino ben identificabili, quel sapore di erba verdissima e di nuvoloni in perenne corsa nel cielo che solo chi è stato nell’Isola di Smeraldo può veramente mettere a fuoco.
I nerboruti, accesi blues messi in fila in quest’album vengono ogni tanto intervallati da variazioni sul tema, rappresentati da intense ballate rhythm&blues come “Separate Ways”, lentoni blues al 101% come la cover di Duster Bennett “Jumpin’ at Shadows” e l’autoctona “Nothing’s the Same”, posta alla fine del disco.
Nell’interminabile dischetto digitale in mio possesso vi sono pure cinque bonus tracks, fra cui spiccano l’immarcescibile “Woke Up This Morning” di B.B.King (ospite nel disco, come anche Albert Collins) ed una notturna e impagabile session strumentale chiamata “Once in a Blue Mood”.
Talento inenarrabile, potente poeta del blues con un suono devastante, anima generosa e tormentata, Moore ci ha lasciato troppo presto, nel 2011, a causa di una vita sregolata e imprudente. Ma la chitarra ardente e la voce emotiva sono immortalate, per fortuna, in decine di suoi dischi. Chiunque voglia accostarsi a un’anima turbata ma sincera, racchiusa in un vero animale blues di sconvolgente forza, ha a disposizione una bella fila di opere, fra cui questa.
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