La musica parte potentissima con la canzone eponima, un tosto e ortodosso rock’n’roll prima veloce, poi a medio tempo, poi di nuovo veloce per finire. “There’s a Hole” è invece un blues semi lento, con un momento centrale di interludio in forma di ballata. Sul quale precipita uno degli suoi interminabili assoli tellurici, quelli che dopo che l’ha finito deve cambiare la muta di corde alla Strato. Per la seconda traccia “Tell me Woman”, che è un classico boogie, viene ampiamente adoperato il vecchio e sempre efficace pedale wha wha, risorsa intramontabile.
“I Can’t Quit You Baby” è proprio il blues lento di Willie Dixon reso celebre dalla versione dei Led Zeppelin sul loro primo album. Non ci scherza sopra neanche Moore, che poi passa a raccontarci perché esegue tale genere musicale in “That’s Way I Play the Blues”, appunto. Un blues autobiografico quindi, mentre tonitruante è la successiva cover di “Evil”, ancora proveniente dall’estro del seminale Dixon e di nuovo col wha wha a lavorare di brutto.
Composizione nuovamente sua è invece “Getaway Blues”, ma a ben vedere in quest’album non c’è la minima differenza fra contributi originali e cover a livello di suono, genere, approccio. Questo è proprio un disco di schietto hard blues settantiano, con gli esperimenti e gli “aggiornamenti” degli anni precedenti azzerati. Ci si dà dentro secondo personale stile e incredibile animosità, su musica vecchia come il cucco, dalla prima all’ultima traccia.
Esplicativamente “Memory Pain” è di Percy Mayfield, un autore rhythm&blues “gentile”, ma Gary non lo è e la resa di questa sua canzone è terremotante come da prassi. Né più né meno della successiva “Can’t Find My Baby”, altro esaustivo trattato di come la buona musica, passionalmente eseguita, vada bene per sempre e non solo nella sua epoca.
Il lentone alla Moore tarda stavolta a palesarsi, ma se non altro giunge in zona Cesarini, alla decima ed ultima occasione. S’intitola “Torn Inside” (lacerato dentro) e stavolta Moore non esagera, si mantiene entro i sei minuti. E’ peraltro servita per l’ennesima volta l’occasione per dolersi di qualche donna che l’ha mollato e contemporaneamente rinverdire i fasti del suo mesto, magistrale solismo applicato alla Les Paul Standard.
Per chi ama la versione di questo chitarrista ancorata completamente alla scuola rock blues, senza varianti o infiltrazioni di altri mondi, questa quattordicesima sua opera del 2004 è fra le più indicate. Molto retrò, senza spunti di attualità ma c’è amore, e talento.
Elenco e tracce
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