“Raudo” è un disco che ha fatto parlare molto di sé l’anno scorso, a dire il vero anche per fattori che trascendono la musica stessa e si spostano sul lato umano e sul diritto di critica.

La netta stroncatura di Ondarock con immediata risposta al veleno con insulti personali al suo recensore da parte della band non è passata inosservata negli ambienti delle webzine e dei blog e ha scatenato un’interessante diatriba su chi avesse ragione cosa con tanto di opposte fazioni.

Qui ci limiteremo a notare come ormai il web sia la vera rassegna stampa musicale aperta a chiunque voglia dire la propria liberamente e con un pubblico di lettori di riferimento in cui vi rientrano anche le stesse band, che tuttavia dovrebbero accettare le critiche o rispondere in maniera adeguata.

Ma chiusa questa parentesi andiamo ora a parlare di “Raudo” che segue l’acclamato “Legna” del 2011 e che vede continuare il sodalizio artistico con To Lose La Track.

Si è parlato di slanci corali e di suono più diretto, ma a dire il vero bene o male sono sempre i soliti Pinguini in bilico tra distorsioni abrasive e armonie vocali che fanno da sfondo a testi che rievocano spaccati di vita specchio di un età che per alcuni è attualità per altri storia relegata agli almanacchi.

La noia, l’attesa, il tripudio di “Finito il caffè” con il suo “contavo i giorni lontano da te e toglievo ad ogni giorno almeno un’ora…” ripetuto all’unisono ha i crismi per essere un anthem e infatti viene promossa a singolo, meno debordanti emotivamente ma sulla stessa lunghezza d’onda “Casa dei miei” e “Difetto”. L’anima hardcore della band esce su “Domani è gennaio” e “Ogni scelta è in perdita” dove l’aria si fa meno giocosa e più incazzata.

Scorrendo la tracklist troviamo un altro pezzo da novanta nonché altro singolo/video: “Trasloco” che con le sue vecchie foto riesce ad evocarmi qualcosa di personale seguita a ruota da “Mio nonno”. “Correggio” è l’unica fermata al semaforo, momento pozzo profondo di nostalgia pura prima che si innesti il turbo con la doppietta finale: l’autoironica “Non morirò” con quei dieci secondi finali che vorresti durassero almeno il triplo e “Piuttosto bene” con il titolo ripetuto fino allo sfinimento come fosse un mantra, un autoconvincimento, una cura per loro, per noi, come a dire credeteci, che noi ci abbiamo creduto e siamo arrivati fin qui.

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