Autentico cult-hero di tutti gli aficionados dell'epopea West Coast, ma non solo: non a caso i Teenage fanclub gli hanno dedicato la "Gene Clark" nel loro album "13".

Il cantautore nativo del Missouri è però ricordato dal grande pubblico principalmente per la seminale esperienza dei Byrds, che lui e Roger McGuinn portarono sul trono del rock USA a metà degli anni 60, fino a quando il celebre attacco di panico prima di un volo a Minneapolis non pose la parola fine a tale avventura. Clark, genio autolesionista come Rocky Erickson, Barrett o Brian Wilson, non rimase però intrappolato nell'ascensore al tredicesimo piano: perseguì un peculiare percorso artistico stanziandosi in California, lontano dalla luci della ribalta, in precario equilibrio emotivo e con gli strascichi degli abusi alcolici sempre presenti. Un carriera tanto artisticamente splendida quanto infausta nelle vendite, che ne fa però uno dei 3-4 definitivi songwriter di "americana", grazie in particolare al capolavoro "White light".

L'album qui trattato sancisce il suo debutto in proprio del 1967, particolarmente sfortunato per la decisione della CBS - che mal aveva digerito il suo divorzio da McGuinn - di farlo uscire nella stessa settimana di "Younger than yesterday" dei Byrds, senza contare la co-intestazione coi Gosdin Brothers (che forniscono solo melodie vocali). Tra questi solchi Gene ondeggia da par suo tra reminiscenze folk-beat e suggestioni wescoastiane declinate dal suo cristallino talento pop in piccole gemme come la disincantata "I think I'm gonna feel better", la squisita "The same one" e il gustoso arabesco di "Is yours is mine". E redigendo inoltre la grammatica del nascente country-rock con umidi sapori bluegrass che intarsiano le 11 composizioni dell'album. Ciò grazie all'aiuto del futuro Byrds Clarence White (sì, proprio quello che avrebbe sparso aromi targati Nashville su "Sweetheart of the Rodeo" dell'anno successivo) e di quel Doug Dillard col quale l'anno successivo Gene avrebbe messo in piedi la "fantastic expedition", da molti considerata una delle pietre miliari del genere che nello stesso periodo Gram Parsons stava forgiando. Ascoltando le innovative sfumature di "Tried so hard" (condita dalla strepitosa chitarra bluegrass di White, che scioglie il lascito jingle-jangle in sublime dolcezza agreste) o della tiratissima "Keep on pushin'" si capisce i semi del genere erano già stati piantati.

Su tutto svetta poi la malinconica e vigorosa voce di Gene, grondante talento e umanità come poche, che ci accompagna nei gironi delle anime perdute, con apice nel supremo pastiche melodico di "Echoes": ma senza rinunciare alla gioia del movimento, alla freschezza e al respiro dell'aria aperta e tersa dopo la pioggia. E come in tutta l'opera di Gene Clark, non c'è mai un momento d'afa.

Carico i commenti... con calma