Dopo un album facile facile dallo spropositato successo commerciale come "Invisible touch" (con ben 5 singoli in top-ten!) la scelta più scontata per i Genesis era di pubblicarne un disco-fotocopia. Fortunatamente le cose non andarono proprio così: infatti "We can't dance", pur in una dimensione pienamente pop e con un sound tipico anni '90, si fa ascoltare piacevolmente.

Questa considerazione naturalmente non è valida per i critici anti-Collins ad oltranza, coloro che dal 1978 in poi (alcuni addirittura dal 1976!) non perdono occasione per seppellire di merda ogni lavoro targato Genesis... talvolta dando l'impressione di non averlo nemmeno ascoltato con un minimo di attenzione ed obiettività. Già un rapido sguardo all'artwork (un raffinato acquerello dopo le mostruose e sciatte copertine del periodo 1981/1986) fa presagire un lavoro più curato rispetto al precedente. E in effetti si nota subito che il suono è meno sintetico e artificioso, anche se ancora fortemente debitore all'elettronica, mentre si riaffaccia il gusto per composizioni più articolate con adeguate aperture strumentali... Colpisce positivamente anche il livello di buona parte delle liriche (così scadenti e superficiali nel recente passato), che rivelano un'inaspettata sensibilità alle problematiche sociali del nostro tempo.

Un degno esempio è il buon brano di apertura, nonché primo singolo "No son of mine", che affronta lo scabroso tema degli abusi in famiglia. Fra i brani più elaborati la lunga "Driving the last spike", insolitamente dedicata ad un episodio storico (la costruzione della rete ferroviaria britannica), che si apre come soffusa ballata per evolversi poi in ritmiche più rockeggianti. Il pezzo più amato dai vecchi fans è senz'altro la splendida "Fading lights": dopo un malinconico inizio cantato alla grande da un Collins in stato di grazia, esplode un lungo intermezzo strumentale che ricorda le atmosfere di "Duke", dominato dalle corpose tastiere di Banks. Degna di nota anche la curiosa "Living Forever", con un bel finale corale in cui primeggia la batteria jazzy di Phil. Ma forse il top dell'album è rappresentato dalla moderna e sperimentale "Dreaming While You Sleep", un brano intenso e inquietante, con un bel lavoro chitarristico di Rutherford... ancora più bella e drammatica nella versione live. La sbarazzina "Jesus He Knows Me" tratta invece il grottesco fenomeno dei tele-predicatori americani (non che in Italia siamo messi molto meglio, fra santuari a padre pio e madonne piangenti). Brani decisamente immediati e commerciali ma tutto sommato ascoltabili sono il bluesaccio "I can't dance", il lentone da pomicio "Hold on my heart" e la ritmata "Tell me why", dal testo pacifista sottolineato anche dal relativo video.

Purtroppo non mancano i soliti brani tappabuchi, una triste costante nei Genesis anni '80: "Never a time", "Way of the world" e "Since I lost you" sono inutili quanto insignificanti. Nonostante la loro presenza si può affermare che "We can't dance" è un buon episodio della carriera pop a tre, sicuramente il migliore dopo il 1980 (assurdo tentare paragoni con la irripetibile fase progressive della band), ricordando infine che questo album ha venduto la bellezza di 20 milioni di copie. E coniugare efficacemente qualità e successo non è impresa da poco. Voto 3,5.

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