Uh-oh! Ci fanno notare che questa recensione compare anche (tutta o in parte) su rootshighway.it

Nascosto dalla polvere (che evidentemente si sentiva particolarmente "a casa" sopra un disco così) riprendo in mano questo vecchio disco del "Gigante di Sabbia" uno dei lavori più intriganti dei Giant Sand, band dell'Arizona, alfiera di quello che, sul finire degli anni '80, venne definito desert-rock.

"Chore of enchantment" é un bel rock di frontiera scalcagnato e sbilenco, dove le radici folk e country vengono rimescolate dalla creatività dinoccolata di Gelb e dei suoi fedeli compagni d'avventura: la coppia Convertino-Burns (basso-batteria), menti pensanti dell' altro fantastico gruppo di "confine" denominati Calexico. Registrato tra Tucson, Memphis e New York, con l'affaccendarsi di ben tre produttori differenti, il disco non sembra soffrire di una alcuna disunitarietà nel sound, anzi. C'è nei confronti del passato un'apertura più intima e riflessiva, allineato se vogliamo agli stessi umori minimalisti, oscuri, dimessi dei Calexico o di bands come i Palace e Hayden. E' lo stesso Howe Gelb del resto a farsi portavoce e capostipite di queste sonorità, mostrando a tutti la sua innata capacità di scrivere ballate scheletriche, sulla scia del Neil Young più oscuro e intimista. Del resto siamo di fronte a un incantesimo quasi alchemico: una parte dei Giant Sand, un terzo Howe Gelb e due terzi Calexico, in una parola: musica amaliante e senza tempo. Tutto suona "rinnovato" nelle mani di Gelb, quest'uomo dal talento straripante, capace di stupire per scrittura e suoni, che vira all'improvviso, che accarezza e fa svisare strumenti in armonico contrasto, in quel dualismo che lo disegna "anima sensibile" dentro a un cuore profondamente punk. E mai come ora, appare come un equilibrio, forte e fragile nello stesso tempo, come il doloroso parto di questo disco, concepito e nato con fatica per una serie di sfighe di vario genere, dalla morte del compagno Ptaceck che ha turbato non poco Gelb e i suoi, fino al rifiuto della sua pubblicazione del disco da parte della V2 perché ritenuto "troppo poco commerciale".

Un lavoro affascinante ma effettivamente non facile da masticare: gli amanti delle sonorità più roots e classiche storceranno il naso di fronte a tutti questi sperimentalismi e deviazioni di percorso. Si parte con l'apertura d'archi ("Overture") per passare al tenebroso sound di "Dusted", non dissimile dalle intuizioni dei Calexico, ed alla bellissima ballata folk "Punishing Sun". Si prosegue con il passo vellutato di "X-tra wide", tra inserti di mellotron e soffici parti vocali, ottimo esempio di folk-pop sognante e stralunato. "1972" ci regala 60 secondi di delirante rumorismo punk ed aggiunge follia all'opera, un sentito omaggio al Beck-sound più sghembo, l'episodio più discutibile del disco, pieno di loops e drum machine. Piccolo peccato veniale, perché il resto è tutto superlativo: la desolante malinconia di "Raw" e "Dirty from the rain", splendide ballate quali "Shiver" e "No reply", le dissonanze e la furia rock di "Satellite", il country "straccione" di "Way to end the day". Chiude il disco un sentito omaggio all'amico scomparso Rainer Ptacek, grande chitarrista slide e spesso collaboratore dei Giant Sand, con la breve "Strine".

"Chore Of Enchantment" è il risultato di tutto questo, un viaggio da fermo fra Tucson (con la produzione di John Parish), Memphis (con Jim Dickinson) e New York (con Kevin Salem e i suoi musicisti), dove sono state prodotte le diverse canzoni del disco. Un disco "di spessore", che ci fa assaporare in ogni sua parte tutta la grandezza di un gruppo quasi passato nel dimenticatoio.

Uno di quei dischi che non mi stanco mai di ascoltare...

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