Raramente mi avventuro nella recensione di album pubblicati nel nuovo secolo, tempi che mi appartengono ben poco, per attitudine, gusto e competenza. Nel caso dei Girls Names di Belfast sento di poter fare un’eccezione, avendoli seguiti fin dagli esordi. Sarà per quella loro vaghissima attitudine al suono Postcard oppure per quella loro vocazione alla rielaborazione del post punk attraverso nuovi linguaggi. In qualsiasi caso, mi ero parecchio affezionato a loro, proprio un attimo primo del loro scioglimento che seguì di pochi mesi la pubblicazione del loro ultimo album ad oggi, “Stains on Silence”, ovvero “Macchie sul silenzio”. Prima c’erano stati gli esordi surfer-chic di “You should know by now” nel 2010 e di “Dead to me” l’anno dopo e poi il “vero botto” con l’epico “The New Life” nel 2013. Qui il kraut rock derivativo di gruppi come Toy e Factory Floor si sposava perfettamente con lo shoegaze onirico di modelli come Breathless e Slowdive. Il disco della consacrazione doveva dunque essere per i Girls Names quel’”Arms around a vision” del 2015. Invece il disco aveva ulteriormente disorientato critica e fans, nel suo spigoloso ritorno al passato attraverso sonorità molto “wave” che, tenetevi forte, richiamavano addirittura i primi Stranglers!

Ci si aspettava molto da “Stains on Silence”, forse troppo. Lo stesso gruppo sembrava disorientato dalla strada che Cathal Culling, leader della band, avrebbe voluto intraprendere. Le tensioni interne erano palpabili. E probabilmente aveva ragione la bassista Claire Miskimmin ad essere perplessa in diretta sui social. Perché aveva percepito che Cathal stava ormai seduto nella sua stanza buia, impegnato a vivisezionare le tracce dell’album in un processo di destrutturazione e riassemblamento di quanto la band aveva inciso l’anno prima. Nessuno sapeva bene dove avrebbe portato, "se" avrebbe portato.

Per questo “Stains on silence”, album dalla gestazione tormentata, si rivela un salto in avanti senza rete. Prendere in prestito dal passato è una cosa che i Girls Names avevano dimostrato di saper fare abbastanza bene. Trasformare le proprie influenze in un'entità unica e completamente originale è decisamente più sfidante. Ed è quello che i “Girls Names” ed in particolare Culling, cercano di fare, non senza difficoltà. Le canzoni vanno in questo senso, ma anche solo definirle tali è veramente approssimativo.

Dalla languida apertura di “25” che si prende tutto il tempo necessario per diventare canzone, dopo un lungo opening da Comedy Drama anni 70. Lenta ipnotica come solo una “Seventeen Seconds” del terzo millennio avrebbe potuto essere, punteggiata da un pianoforte leggero come un’ombra su un tappeto di sintetizzatori. A mio parere è un grande pezzo e fissa immediatamente la cifra dell’intero disco. Qui le chitarre vengono utilizzate per creare stratificazioni di accordi più che linee melodiche e il drumming sintetico diventa protagonista. Esattamente come in “Haus Proud”, in egual misura doom e dreampop, volutamente frammentaria e frammentata. Due dosi di New Order epoca Movement, una spruzzata di Bad Seeds ed il fantasma di Martin Hannett seduto al mixer a ricomporre il collage. Scompaiono completamente i rassicuranti frammenti jangle pop e avanzano invece disordinatamente le suggestioni post rock. Dove sono finiti i Girls Names che conoscevamo? Non certo in “The Process”, uno stato d'animo instabile, una linea di basso perplessa che sostiene chitarre lamentose. Direi vagamente Bauhaus, forse per la voce spettrale che risulta ancora più interlocutoria quando, in coda, una sorta di calore bianco va a depositarsi sulla canzone. Nessuna melodia a sostenere lo sforzo. E che dire del galoppo a metà di "The Impaled Mystique" e di quella chitarra molto “Cure” che si ferma improvvisamente per un respiro affannato, un attimo prima di perdersi in dolci reminiscenze coldwave.

Il nuovo suono dei Girls Names vira dunque fortemente in favore di un lento delirio psichedelico e di una sperimentalità quasi azzardata. La musicalità ne esce in parte compromessa e le progressioni chitarristiche che avevano reso celebre la band in passato sono solo un ricordo. Regna una sorta di "quasi immobilità". In apertura di secondo lato ad esempio, la lenta marcia di “Fragments of a portrait” ne è diretta testimonianza. Un tappeto "ambient" di percussioni e chitarra, di note sparse senza ordine quasi fossero cocci su un pavimento. Il cantato di Cathal che prima si fa recita e poi scompare definitivamente, lontano nell’eco. Sublime a tal proposito è la epica title track che distilla gli elementi presenti in tutto il disco e li trascina senza fretta in un crescendo di sei minuti, malinconico ed irresistibile. Quasi una "Decades" di tanti anni dopo. O come nella più rassicurante e conclusiva "Karoline”, scelta come “ipotetico” singolo apripista. Anche qui la tensione strumentale non scema mai e la melodia scaturisce quasi malvolentieri da un tappeto sonoro vagamente motorik.

L’impressione alla fine del disco è quella di non averci capito un bel nulla e di doverlo ri-ascoltare per farsi un’idea. Ad un primo ascolto, non resta nulla nella memoria, solo frammenti e suggestioni. Ma questa volta non è un difetto di banalità ed anzi. Non siamo dalle parti degli Arctic Monkeys o degli Editors qui. Con “Stains on Silence” la band ha alzato a dismisura l’asticella e sfiora il proprio apice stilistico-creativo. Ma poi implode e finisce per cancellare il suo stesso futuro. Un passo in nessuna direzione dunque, un disco inevitabilmente conclusivo. Ed il fascino dell’opera sta proprio in questo tentativo di elevazione, un processo di sintesi estrema che ha provocato distacco, tra i componenti della band innanzitutto. E poi dai canoni tradizionali dell’indie pop che li rendeva parte di un movimento dal quale la band prende definitivamente le distanze. Un viaggio di sola andata per una destinazione sconosciuta quello dei Girls Names, mi mancheranno sicuramente. “Stains on silence” è stato un vero flop a tutti livelli, un "suicidio commerciale" avrebbe detto Colin Newman dei Wire. Anche se ascoltato pochissimo e criticato, spesso senza approfondimento, l’album va assolutamente recuperato. E' un epitaffio del breve ed intenso viaggio dei Girls Names nella musica alternativa di questi ultimi anni, a mio parere, uno dei pochi che valga davvero la pena di aver seguito.

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